La critica gastronomica non esiste; il giornalismo enogastronomico è schiacciato dai conflitti d’interessi; i cuochi parlano di argomenti più grandi di loro senza averne le competenze; i ristoranti stellati sono insostenibili. Per non parlare poi di food blogger e influencer, che diffondono la confusione tra informazione e pubblicità. Leggendo quello che afferma da anni, potrebbe sembrare che Valerio Visintin odi profondamente il mondo della cucina e tutto quello che gli sta intorno. In realtà, è proprio il contrario: il critico mascherato, che dal 2011 nasconde il suo volto nelle occasioni pubbliche per tutelare la propria identità ed essere libero di visitare in incognito qualsiasi tipo di ristorante, senza temere di essere riconosciuto e trattato come un cliente d’eccezione, ha parecchio a cuore il mondo culinario e tutto quello che gli sta intorno. Così tanto a cuore da aver intrapreso, nell’ultimo decennio e oltre, innumerevoli battaglie per smascherare pratiche poco etiche, pubblicità occulte, marchette spacciate per servizi giornalistici. Il tutto, continuando a portare avanti quello che è il suo lavoro: il critico gastronomico.
Valerio Visintin, l'alta cucina e la critica gastronomica
Visintin, da cosa potremmo partire? Il Noma di Copenaghen, considerato uno dei migliori ristoranti al mondo, chiuderà i battenti. O forse no. Qual è la verità?
La verità è che il giornalismo, quello che parla di cucina ma anche quello generalista, continua a commettere degli scivoloni pazzeschi. Quella del Noma che chiude non è altro che una fake news. O meglio, una notizia riportata male che è stata poi rilanciata da quasi tutti i giornali che, come succede ormai sempre più spesso, sono alla ricerca dei click e non della verità. In realtà il Noma non chiude ma dal 2025 cambierà format, diventerà più un laboratorio.
Allora è vero che l’altissima cucina, quella cosiddetta stellata, non è sostenibile. Lei lo dice da anni.
E lo possiamo dire ancor più ad alta voce oggi, con tutti i rincari che hanno investito anche e soprattutto il mondo della ristorazione. La cucina di ricerca estrema del Noma, pur avendo una lista d’attesa lunga mesi, non poteva funzionare così come non funziona quella di tanti altri ristoranti gourmet che presentano ai clienti conti a tre zeri.
E come possono restare aperti?
Vivono solo grazie a un mercato completamente drogato, sostenuto da sponsor, amicizie e agganci. Il lavoro della cucina è marginale, da solo non potrebbe sostenere il giocattolo. Io cito spesso uno studio che dice che gli stellati guadagnano in media 2mila euro al giorno, cifra che non farebbe stare in piedi nemmeno una pizzeria di paese. Le spese che hanno per personale, materia prima e gestione generale non è sostenibile.
Ci spieghi meglio.
Quei ristoranti sopravvivono grazie all’indotto che producono: gli chef che fanno pubblicità o comparsate in tv, le consulenze, i banchetti. In altre parole, i cosiddetti stellati non potrebbero sopravvivere senza televisioni, giornali e sponsor più o meno dichiarati. I menù spesso sono farciti di marchi commerciali, non mi stupirei se scoprissi che dietro alla citazione di un’azienda che produce pasta o di un’azienda che produce farina ci fosse un qualche ritorno per il ristorante stesso. Il sospetto è legittimo, anche se quando ho chiesto ai diretti interessati mi è sempre stato risposto di no.
Ci sono anche realtà virtuose, come quella della famiglia Cerea del Da Vittorio di Brusaporto.
Assolutamente sì: quella si è dimostrata una famiglia di grandi imprenditori che ha saputo costruire un impero vero e proprio. La loro, tra ristoranti, bar, catering e collaborazioni, è un’industria che funziona. Un esempio è la partnership che hanno creato con Esselunga per la pasticceria della grande distribuzione: fanno dei prodotti molto validi.
Una grossa fetta di turisti in Italia viene per l’offerta enogastronomica. Quanto contribuisce il mondo degli stellati?
C’è sicuramente un turismo generato dagli stellati, ma il grosso dei turisti viene in Italia per pizza, pasta e altri prodotti. Direi che solo una piccola percentuale di turisti compie il viaggio perché può permettersi di andare all’Osteria Francescana, che tra l’altro ha solo venticinque coperti.
Eppure Bottura è considerato l’emblema del cuoco italiano all’estero. A lei piace Bottura?
Dietro ai fornelli ha dimostrato di essere un ottimo cuoco, almeno fino a qualche anno fa. Oggi invece è vittima del suo ego. Qualche mese fa è stato ospite di Fabio Fazio e non ha fatto altro che parlare di sé, delle sue iniziative e delle sue benemerenze. Aveva tra le mani uno spazio, una vetrina che nessun altro professionista di nessun altro settore avrebbe mai. Ma qui, forse, sta il nodo della questione: abbiamo bisogno di eroi a tutti i costi e oggi è il turno dei cuochi che, però, spesso non sono all’altezza. Anzi, non lo sono quasi mai.
Negli ultimi anni abbiamo sentito cuochi parlare un po’ di tutto…
Quando c’è stato il Covid venivano interrogati sul futuro dell’umanità e ne ho sentite di bellissime. Ma la colpa è dei giornalisti che danno loro un carico di credibilità che non si meriterebbero.
Quindi la narrativa che riguarda il mondo della cucina oggi non le piace?
Per niente. Io amo il mondo della ristorazione, per questo mi irrita il modo in cui viene presentato, deforme, edulcorato oltre ogni limite. Oggi chi parla di cucina non scrive quello che pensa ma solo quello che serve per accodarsi al circo mediatico. Alle spalle di questo modo di fare ci sono comportamenti vergognosi, con responsabilità pesanti da parte degli editori che non pagano a sufficienza e portano il giornalista a vendersi. Perché il punto è proprio questo: il giornalista spesso non si può permettere di pagare una cena a tre cifre e quindi, pur di parlare di questo o di quel locale, che fa? Si presenta al ristoratore, così sa che avrà la cena regalata. In cambio, ovviamente, scriverà solo cose positive.
Possiamo dire che la critica gastronomica italiana non sta affatto bene?
Diciamo che non è mai nata, non è mai stata fatta seriamente, e oggi continua a non esistere proprio, salvo rarissime eccezioni. Il racconto del mondo enogastronomico non sta meglio: spesso è caratterizzato da una narrazione incompleta, superficiale, oppure supportato da una marchetta nascosta. Torniamo sempre al punto di prima: il problema sta nella scarsa sostenibilità dell’informazione. Tutto il mondo del giornalismo è in crisi, le realtà che vivacchiano lo fanno perché hanno alle spalle degli sponsor che, inevitabilmente, le condizionano. La cosa che mi rattrista di più, da giornalista, è che presto non avremo più nessuno a cui credere quando ci saranno solo pubblicità, occulte o meno, dietro a ogni realtà giornalistica. Nel food questo processo è avviato da anni.
Ci sarà pure qualche eccezione, almeno un progetto editoriale valido…
L’inserto del quotidiano Domani, Cibo, è sulla strada giusta. È nato da poco ma è un progetto molto interessante, che leggo sempre con piacere. Il cibo è politica e lì viene trattato come si deve. Del resto, di leggere quello che dicono gli chef siamo stanchi.
Lei da più di dieci anni si presenta agli appuntamenti pubblici mascherato per tutelare la propria identità nei confronti dei ristoratori. Come le è venuta questa idea?
La prima volta è stata in occasione della presentazione di un libro che scrissi nel 2011, mi dissi che se la mia foto fosse uscita su qualche giornale non avrei più potuto fare recensioni ai ristoranti in incognito. Non potevo permettermelo. Prima di allora partecipavo alle occasioni pubbliche senza timori perché non ero ancora tanto noto e i social non erano usati in modo estremo come oggi. La giacca in pelle l’avevo acquistata anni prima in onore di Donnie Brasco, film con Al Pacino e Johnny Depp: ora non la posso più usare quando non sono mascherato, sarei riconoscibilissimo.
Quel passamontagna non le ha mai creato problemi con le forze dell’ordine?
Solo due volte, sempre a Torino e sempre al Salone del Gusto. La prima volta sono stato accerchiato da una volante e da due poliziotti a cavallo; la seconda sono stato portato in un angolo da due carabinieri che poi, accertata la mia identità, mi hanno fatto il piacere di accompagnarmi fino al palco per evitare altri guai.
Vedremo mai Visintin senza maschera?
Se il mio compito professionale cambiasse potrei anche mostrare il mio volto senza problemi, non è che ci tenga particolarmente a girare mascherato come un pirla (ride, ndr). È che oggi per me questo costume è una necessità che, vi dirò, trovo anche molto divertente.
Ci perdoni, ma noi torniamo ancora a parlare di alta ristorazione. Lei che in questi anni ultimi ha cenato da stellati, bistellati e tristellati ci dica: in quei posti esiste davvero l’esperienza perfetta?
Direi proprio di no. Salvo casi rarissimi, anche nei ristoranti più cari e blasonati ho trovato piatti imperfetti. Il problema è che, ormai sempre più spesso, i cuochi sono al servizio non del cliente, ma del proprio pensiero, della propria personalità. Vogliono strafare con accostamenti azzardati e, il più delle volte, confezionano cose non all’altezza della situazione.
È per questo che lei preferisce parlare di trattorie, osterie e ristoranti che non rincorrono il premio o il riconoscimento, è così?
Esatto. Anche perché dobbiamo ricordarci che quando parliamo dei cosiddetti stellati trattiamo solo una piccola nicchia, uno zero virgola. Ma la ristorazione italiana è ben altro, conta più di 300mila attività che vivono al di fuori dei riflettori, come se fossero dei parenti poveri, di serie B. In realtà il piccolo-medio ristoratore costituisce la vera ossatura della nostra proposta enogastronomica nazionale.
Abbiamo parlato di critica, di cuochi, di ristoranti stellati e di realtà più piccole. Non possiamo però far finta che il problema del personale di sala non esista. Perché, secondo lei?
Lì c’è un problema reputazionale: quello del personale di sala è considerato un lavoretto, un mestiere provvisorio. Da un lato, poi, c’è il fatto che i camerieri, così come gran parte dei cuochi, per anni sono stati trattati malissimo dagli imprenditori del mondo della ristorazione. Moltissime persone, soprattutto dopo la pandemia, hanno scelto di fare altro.
Ma è davvero colpa dei giovani che non hanno più voglia di sacrificarsi? Sembrerebbe una motivazione sterile.
Non scherziamo. Si parla solo di giovani che non vogliono lavorare, ma dove sono i professionisti avviati di 40-50 anni? Ve lo dico io: quelli over 30 sono tutti scappati, fanno altro. Ovviamente ci sono delle eccezioni, ma il grosso di questi lavoratori ha cambiato vita perché, come abbiamo detto prima, il ruolo del cameriere è scaduto. E tutto questo è successo sotto agli occhi dei giornalisti di settore che non hanno mai scritto cosa stava succedendo. Hanno preferito alimentare la bolla gioiosa della ristorazione dimenticandosi dei diritti di chi quella bolla la manteneva coi propri sforzi e i propri sacrifici.
Per chiudere, ci rituffiamo a bomba sulla critica gastronomica: esiste una possibilità di cambiare le cose?
Bisognerebbe che cambiasse proprio tutto, servirebbe una rivoluzione culturale che in quest’epoca di social faccio davvero fatica a vedere. E, per dirla tutta, non possiamo dare la colpa solo a editori e giornalisti. Penso anche ai lettori: nessuno è più disposto a pagare per ricevere notizie e informazioni, ma chi usufruisce solo di giornali gratuiti è bene che sappia che qualcuno dovrà pur sostenere economicamente quel progetto. Se non è lui, sarà qualche sponsor. E quando tutto è in mano agli sponsor non c’è più la volontà di affrontare o approfondire determinate tematiche. Di fatto, così, muore il giornalismo. E poi penso agli influencer: dovrebbero avere meno potere persuasivo ed essere più attenti a rispettare chi li segue, magari dichiarando quando un contenuto è sponsorizzato.
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Alberto Lupini
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