La Fipe attacca il governo: riversa sui ristoranti le frustrazioni dei propri ritardi. «Non siamo il problema»

Durissimo attacco senza precedenti della Fipe a Conte e ai suoi ministri: agiscono senza logica e senza supporti scientifici. L'incertezza dei politici ha messo in agonia bar e ristoranti . Ultimo appello perchè non si decidano nuove chiusure per Natale: i locali non sopravviverebbero senza adeguati aiuti.

02 dicembre 2020 | 12:58
di Alberto Lupini
Ormai ci siamo. Oggi Giuseppe Conte, deciderà come affronteremo il Natale. La sfida enorme è di evitare una terza fase della pandemia che sarebbe a questo punto disastrosa. Ma oggi nessuno può più accettare uno scaricabarile fra Stato e Regioni. Nessuno vuole più vedere decreti in puro burocratichese che rinviano ad altri decreti da emanare (il Ristori quater prevede un fondo per tagliare le tasse alle imprese in crisi, ma non c’è nessuna norma attuativa e in più i soldi sono presi da un altro fondo per pagare le debiti dello Stato verso le imprese…).

Lino Stoppani, presidente Fipe versus Giuseppe Conte, premier

E, soprattutto, nessuno vuole più ascoltare bugie. Si, proprio bugie, perché se sarà confermato che il Comitato Tecnico scientifico non ha mai chiesto di chiudere i ristoranti, sarà palese a tutti che il Capo del Governo ha mentito agli italiani e ha deciso in autonomia di penalizzare un comparto che aveva adottato tutte le procedure di sicurezza richieste. Una decisione gravissima che ha innescato una sorta di caccia all’untore per depistare l’indignazione degli italiani verso la scandalosa e criminale gestione dei trasporti che, a detta di tutti gli esperti, è stato il meccanismo che ha fatto deflagrare la bomba innescata in estate con il lassismo di Governo e Regioni su spiagge e discoteche.

E oggi i pubblici esercizi, insieme agli alberghi delle località montane, rischiano l’ennesimo stop che porterebbe al sicuro fallimento di 40-50mila aziende, mentre qualche “cretino” (per chiamarli col giusto nome) pensa di riaprire le scuole senza aver fatto nulla per i trasporti…

Siamo in una situazione di totale disorientamento e confusione. Conte aveva annunciato per fine dicembre i primi vaccini. E si parlava al massimo di 2-3 milioni di dosi al massimo, ma ieri il ministro Speranza ne ha annunciati 202 milioni di dosi entro marzo. Con una distribuzione che partirebbe però solo da fine gennaio, mentre in Gran Bretagna; quelli della stessa casa farmaceutica, saranno in distribuzione dalla prossima settima. E lo stesso sarà annunciato a breve in Germania e forse in Francia. Ma in che mani di burattini o burattinai siamo finiti?

Davvero il livello della decisione politica è giunto a livelli bassissimi, al punto che la Fipe, la Federazione dei pubblici esercizi, che pure in questi mesi si è impegnata ogni giorno per tutelare bar e ristoranti e cercare di collaborare con il Governo e le Regioni per organizzare una situazione di sicurezza in tutti i locali, ha deciso di rompere ogni indugio contestando apertamente ed ufficialmente le bugie e le inadempienze del Governo.

Dopo la grande protesta che aveva portato nelle piazze d’Italia 10mila imprenditori, la Fipe ha scelto ora la formula di una pagina a pagamento pubblicata sul Corriere della sera, che di seguito riportiamo integralmente condividendone ogni passaggio. in cui e sprimne lo sconcerto e la delusione per le scelte senza logica e senza supporto scientifico compiute dal Governo.

Francamente non ci illudiamo molto che il premier Conte terrà conto di quanto è scritto e, soprattutto, di quanto aveva garantito ai dirigenti della Fipe. È chiaro però che da oggi non ci saranno più sponde comprensive. Il Governo potrebbe non potere più contare sul senso di respsoanbilità di chi finora, con una tutela fatta di contatti e pressioni quotidiane, ha cercato di salvaguardere le imprese evitando che l'insoddisfazione diventasse rabbia sociale.  

 

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IL GRIDO D’ALLARME DEI PUBBLICI ESERCIZI ITALIANI

La politica in questi nove mesi ha sempre sostenuto, ad ogni livello, che fosse necessario il massimo dell’equilibrio tra la tutela della salute e la salvaguardia dell’economia.

A dispetto di questo principio, il settore della ristorazione, che occupa oltre un milione e trecentomila persone, è stato il primo ad essere chiuso e l’ultimo ad essere aperto durante il primo lockdown di marzo.

Settantotto giorni di chiusura in cui le nostre imprese hanno tenuto giù le serrande, impedite a servire anche un solo cliente, mentre questo stesso cliente poteva stare in fila in un supermercato. Un fatto difficile da comprendere sotto il profilo scientifico, economico, sociale e persino umano.

Con senso di responsabilità, ci siamo preparati a riaprire adottando i rigorosi adempimenti previsti dai Protocolli Sanitari messi a punto dal CTS (Comitato Tecnico Scientifico) e dall’INAIL: distanziamento dei tavoli, registrazione delle prenotazioni, mascherine, gel igienizzanti, menu digitali, plastificati o monouso, cartelli informativi in ogni angolo dei locali, prodotti monodose. Abbiamo anche investito sui dehors esterni, consapevoli del fatto che all’aria aperta i clienti si sentivano più sicuri e tranquilli.

Per quattro mesi abbiamo lavorato in sicurezza. Lo testimoniano i dati dell’Istituto superiore di Sanità sull’andamento dei contagi e quelli del Ministero dell’Interno sui controlli, secondo cui dall’inizio della pandemia, su oltre 6,5 milioni di controlli effettuati nel complesso delle attività commerciali, ristorazione compresa, solo lo 0,18% ha subito una sanzione.

Dopo tutto questo, a quasi otto mesi dal primo lockdown, arriva un nuovo fermo, stavolta a tempo indeterminato.

Ci sfibra l’incertezza e ci demotiva l’instabilità, in un’insensata gara all’untore, e allora vogliamo dire con forza che noi non siamo il problema. Lo diciamo con il dispiacere che va agli amici e colleghi che hanno chiuso definitivamente e a quelli che si sono tolti addirittura la vita o hanno perso la voglia di viverla.

Fa rabbia la pretestuosa distinzione tra attività economiche essenziali e non essenziali: tutte le attività economiche

sono essenziali quando producono ricchezza, occupazione, servizi. E tutte le attività sono sicure se garantiscono le giuste regole e attuano i protocolli sanitari loro assegnati.

Ogni giorno si è disposti ad accettare i rischi sanitari connessi ai milioni di persone che si muovono sui mezzi pubblici, nelle fabbriche, nei cantieri, nei campi, ma viene ritenuto pericoloso e improponibile frequentare i nostri esercizi, anche se applicano tutte le misure per il contenimento del contagio.

Da ottobre siamo sottoposti ad uno stillicidio di provvedimenti nazionali, regionali ed in alcuni casi locali: chiusura alle 24, anzi no alle 23, ancora no alle 22 e poi alle 18 e infine chiusura totale, ma solo nelle zone rosse e arancioni, dove opera tuttavia l’80% delle nostre imprese con circa 900 mila addetti.

Come se non bastasse, ora arrivano le indiscrezioni sulle chiusure nei giorni di Natale e di S. Stefano. Un fatto che ha più un valore simbolico che reale per l’economia disastrata delle nostre imprese, ma sul quale non rinunciamo a dire che sarebbe una misura illogica.

Noi crediamo nel confronto e nel dialogo con le Istituzioni. Ma non vogliamo, ne possiamo assistere inermi a scelte che sono incomprensibili nei riguardi di un settore letteralmente al collasso.

Vogliamo trasferire il disagio, la preoccupazione, l’amarezza, spesso anche la disperazione che gli operatori di questo settore stanno vivendo, perché vedono a rischio il futuro loro, delle loro aziende, delle loro famiglie, del loro progetto di vita, che spesso coincide con il loro ristorante, bar, pub, pizzeria, pasticceria, gelateria, azienda di catering, locale di intrattenimento.

Siamo imprese anche noi, con i nostri bilanci e i conti da far tornare e nessuno con queste perdite può stare in piedi.

Stare chiusi a dicembre costa al settore ulteriori 6 miliardi di euro, che si aggiungono ai 27 miliardi già persi. I ristori erogati sono purtroppo inadeguati e insufficienti a compensare danni così rilevanti ed e, quindi, urgente e vitale intervenire rafforzandoli, se si vuole evitare la chiusura di oltre 60.000 imprese e la perdita di 300.000 posti di lavoro, oltre che la dispersione di professionalità, fondamentali per due filiere strategiche per il Paese: Agroalimentare e Turismo.

Fipe-Confcommercio

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