È uno dei gesti più comuni, tradizionali, abituali e se vogliamo familiari appartenenti alla nostra cultura del cibo. È una delle abitudini più condivise, apprezzate, diffuse, capace anche di conquistare gli stranieri in visita nel nostro Paese. I quali, di riflesso, la esportano di ritorno nella loro Nazione.
La scarpetta è un rito laico, un must incondizionato che unisce grandi e piccini, uomini e donne, carnivori e vegetariani. Quasi un obbligo morale (oltre che prettamente di gusto) quando nel piatto c’è rimasto del sugo e a tavola è a disposizione un pezzo di pane, meglio se fresco e con tanta mollica. La scarpetta non è solo un atto “pratico”, per così dire, ma nasconde dentro di sé significati che potrebbero anche essere non espressi verbalmente. La scarpetta è sinonimo inconscio, automatico, di apprezzamento di ciò che si sta mangiando, di ciò che si è mangiato. È quasi un desiderio più o meno inespresso di non veder mai finire quella preparazione. Un gesto spesso meccanico e spontaneo per poter prolungare il più possibile il godimento del piatto in questione.
La scarpetta nell’alta ristorazione, gesto informale o sdoganato?
È uno dei gesti più domestici, se vogliamo, privi di formalità, veri e veraci. Un autentico quanto sincero atto d’amore verso ciò che ci è stato servito. In casa, quando possibile, non si perde occasione di scarpettare un bel sugo, nelle osterie e trattorie viene quasi automatico pulire il piatto con il pane, senza inibizioni o dubbi di sorta. Il discorso cambia, per buona parte di clientela, nei locali di alta ristorazione in cui il contesto vuoi decisamente più formale, lo stile più elegante e un ambiente che, a volte, sa mettere un po’ di soggezione specialmente ai meno avvezzi. Influenzandone i comportamenti a tavola.
Non poche volte, effettivamente, parlando con persone che non hanno grande dimestichezza dell’alta ristorazione, mi è stata fatta notare quasi una sorta di reverenza verso quel determinato tipo di locale. Creduto, e questo forse è anche colpa di come siano stati comunicati questi locali o dall’aura quasi mistica costruita attorno ad alcuni chef, fin troppo austero e ingessato. Severo per certi versi. Un ambiente, insomma, in cui le formalità sono importanti e in cui le informalità sono pregate di accomodarsi fuori. E proprio la tanto cara scarpetta viene inclusa nel novero degli atti proibiti nell’alta ristorazione, soprattutto nei locali stellati. Ma è davvero così o si tratta solo di una credenza popolare, consolidatasi a tal punto da esser ritenuta vera?
Cosa ne pensano gli chef della scarpetta nell’alta ristorazione?
C’è veramente motivo di “temere” la scarpetta in un determinato tipo di ristoranti, escludendola dalle proprie abitudini solo perché siamo in uno stellato? C’è veramente motivo di resistere a uno dei gesti più naturali e autentici riferiti al cibo? È davvero giusto resistere alla tentazione di scarpettare un invitante sugo con il pane a disposizione, solo perché si teme di comunicare un’immagine troppo informale e fuori contesto di sé stessi?
Per togliere dall’impasse tutti coloro attanagliati da questo dubbio abbiamo voluto coinvolgere numerosi chef da Nord a Sud d’Italia (ma non solamente). E sapete qual è il pensiero condiviso? Quello di non avere timori reverenziali o dubbi di sorta: la scarpetta è un gesto d’amore e, a casa così come al ristorante stellato, va fatta. In Italia, così come all’estero dopotutto, è un simbolo dell’apprezzamento gastronomico Made in Italy nel mondo. Abbiamo parlato con chef di fine dining i cui ristoranti sono segnalati in Guida Michelin, con cuochi di locali stellati e Ambasciatori del Gusto. Ecco che cosa ci hanno raccontato.
Cesare Battisti (Ratanà, Milano): «Scarpetta al ristorante? Sono felice»
«Quando al ristorante vedo che il cliente fa la scarpetta io sono felice. Penso infatti che gli ospiti escano dal mio locale veramente soddisfatti quando siamo stati capaci di suscitare in loro emozioni, e quale miglior cucina di quella che riaccende i ricordi? E la scarpetta in questo contesto diventa il perfetto mezzo per rivivere memorie d’infanzia, come quando da bambini la mamma faceva il ragù e noi, prima ancora che fosse pronto, ci inzuppavamo un bel pezzo di pane. Nell’esatto momento in cui la crosta di pane scivola nel sugo rimasto nel piatto del ristorante, tutte quelle immagini nella cucina di famiglia tornano vivide nella mente del cliente. Penso che in questo gesto sia racchiusa una grande dosa di felicità. E poi se ci riflettiamo, la scarpetta è considerata un fenomeno puramente italiano, quando invece in moltissime altre parti del mondo il gesto di raccogliere il cibo con il pane è una pratica quotidiana: mi viene da pensare all’India, dove la popolazione ha da sempre un rapporto profondamente sensoriale con il cibo. La scarpetta assume quindi un significato diverso, diventando un gesto sentimentale e culturale, più un dovere che una scelta, per godere al massimo del pasto sia al livello culinario che emotivo».
Valeria Piccini (Caino, Montemerano - Grosseto): «La scarpetta, un'abitudine che fa molto piacere»
«A me è un'abitudine che fa molto piacere, perché quando in cucina torna un piatto evidentemente scarpettato noi siamo contenti. Significa che è stato gradito in maniera particolare. Non è affatto un qualcosa di negativo passare il piatto con il pane, anzi un paio di anni fa abbiamo anche realizzato un pre dessert dal nome “La Scarpetta”, fatto con fegatini di pollo e salsa di mandorle. Qualcosa insomma da mangiare esclusivamente con il pane. A me non fa altro che piacere vedere un piatto pulito con il pane, è qualcosa che comunica il gusto con il quale quella ricetta è stata assaporata. È quasi come se il commensale dicesse “Se ce ne fosse stato un altro po’ avrei continuato a mangiare”. Quindi non può che darmi immensa gioia».
Nicola Fanetti (Brace, Copenhagen): «Scarpetta? Un gesto di autentico apprezzamento»
«Qui in Danimarca tutti sanno cosa significa "fare la scarpetta”. A Brace lo fanno parecchio i miei clienti e a me piace molto perché io lo interpreto come un gesto di autentico apprezzamento. Quindi non la impedisco, anzi sprono i commensali a farla. Io la vedo come un gesto fortemente legato all'italianità, alla nostra cultura, al nostro modo di fare e stare a tavola. È un gesto popolare e quindi a mio parere non va impedito ma preservato e mantenuto nel tempo. Quindi si, secondo me va considerata ancora di più nel contesto fine dining, senza castigarlo o nasconderlo dietro a inutili formalismi».
Luca Miuccio (Batu, Taormina): «Ci promuoviamo come fine dining pro scarpetta»
«Noi promuoviamo la connessione tattile con il cibo, siamo molto favorevoli per quanto riguarda la scarpetta. Ormai in tanti ristoranti non viene molto usata ma in altri sta tornando di moda, ma è la concezione del nostro fine dining ad avere una connessione con il cibo toccato con le mani, e ci promuoviamo come fine dining pro scarpetta. Abbiamo anche ideato un piatto che consiste in un pesce stilizzato disegnato con un umami, un concentrato di pomodoro che facciamo noi, servendo a parte un trancio di pane condito con origano e olio. Quasi obblighiamo il cliente a usarlo, dandogli un fogliettino in cui è scritta l’istruzione fondamentale “Fai la scarpetta"».
Paulo Airaudo (Amelia, San Sebastian, Spagna): «Scarpetta? Da noi si fa tantissimo»
«Anche da noi, in Spagna, la scarpetta è un’abitudine importata dall’Italia, e da Amelia si fa tantissimo. La riteniamo anzi abbastanza importante: serviamo il pane giusto quando iniziano i piatti con le salse, quindi invitiamo la gente a fare la scarpetta e in tanti effettivamente poi la fanno. Alla fine per i cuochi è una gioia vedere che il piatto è piaciuto tanto e che il cliente alla fine si è anche divertito ed ha apprezzato. Secondo me è veramente importante questo aspetto. Speriamo si possa ripetere anche presto a Firenze».
Carlotta Delicato (Delicato, Contigliano - Rieti): «La scarpetta anche nel fine dining è stata ormai sdoganata»
«Chi sono io per giudicare ciò che un cliente può fare al tavolo? Nel mio ristorante sono per la libertà assoluta di chi siede in sala, e proprio per questo a noi non piacciono vincoli. Anche per questo non abbiamo ancora messo un menu degustazione, per non forzare il cliente nella sua scelta. Io sono pro scarpetta in qualsiasi circostanza, dai tre stelle all’osteria sotto casa. Secondo me, tra l’altro, la scarpetta anche nel fine dining è stata ormai sdoganata e invito i clienti a non temere: la potete fare!».
Gianvito Matarrese (Evo, Alberobello - Bari): «Per me la scarpetta è un gesto d’amore»
«Per me la scarpetta è un gesto d’amore. Tutti da piccoli siamo stati abituati alla scarpetta, anche perché è un gesto metafora di apprezzamento verso ciò che si è mangiato. Era una forma di apprezzamento inconsapevole, incosciente, e per certi versi anche migliore. Se oggi esco di casa per andare al ristorante stellato è giusto che io pretenda un’esperienza di livello per quanto riguarda il fine dining, ma comunque vado per rilassarmi quindi non vedo perché la scarpetta debba essere un problema. Anzi, credo sia anche un po’ “invecchiato” quell’articolo del Galateo che spiegava come tutto il cibo dovesse essere mangiato con le posate. Oggi la ristorazione è cambiata e anche il modo di fruirla. L’aspetto più importante per me è legato al ricordo: la scarpetta è uno dei complimenti migliori che si possa fare a un cuoco, è quasi un messaggio che si manda in cucina, sul piatto che è talmente piaciuto da aver voluto raccogliere fino all’ultima traccia di sugo, per continuare a sentire quel sapore. È anche un modo di dire grazie da parte del cliente. Stare a tavola è convivialità, questo va sempre ricordato».
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Eleonora Andriolo (Acchiappagusto Emozioni dei sapori, Arcugnano - Vicenza): «Scarpetta, non perdiamo l'abitudine»
«Penso che la scarpetta non sia da considerare un gesto informale e di poca eleganza, anzi. Secondo me è un’abitudine da non perdere e aiuta anche noi chef a comprendere quanto il piatto che abbiamo proposto sia piaciuto, così tanto da non lasciare traccia del sugo utilizzato. Ti dirò, io sono la prima che la fa, quindi per me la scarpetta in qualsiasi ristorante non può mancare. Per esempio tra i miei piatti “scarpettabili” ci sono il tortello di parmigiana con la sua crema di burrata oppure gli spaghetti ai “rovinassi”, misto pesce con il sugo al pomodoro».
Domenico Candela (George, Napoli): «La scarpetta, a tavola, è la forma di godimento più pura»
«Per me la scarpetta, a tavola, è la forma di godimento più pura. È simbolo del piatto che è stato apprezzato, sia che ci troviamo in trattoria, un pub, un ristorante fine dining o qualsiasi tipo di locale. Non può non avere un significato positivo, anche per un discorso di apprezzamento del cliente. È insomma una grande soddisfazione per lo chef e la brigata. Noi abbiamo un piatto in carta che è diventato un signature dish: uno spaghetto ai 7 pomodori che invoglia i clienti a fare la scarpetta con un pane al vapore che portiamo a tavola».
Luca Natalini (Autem, Milano): «Scarpetta, una delle basi della cucina italiana»
«Da Autem nel nuovo menu degustazione abbiamo inserito un piatto molto scarpettabile. Si tratta di un raviolo del plin con borragine e ortiche, servito con una salsa al gorgonzola. Invitiamo il commensale a praticare la scarpetta in quanto, anche in modo un po’ giocoso, facciamo notare al cliente che ci scordiamo la salsiera a tavola così possono eventualmente decidere, terminati i ravioli, di poter fare un refill di salsa nel piatto da gustarsi però con il pane. La scarpetta da tempi antichissimi è una delle basi della cucina italiana, non capisco perché se una cosa si mangia con le mani sia necessariamente brutta, negativa. Non mi piace dare l’idea che non si possa fare una determinata cosa al ristorante, luogo in cui si va per rilassarsi oltre che mangiare bene. E la scarpetta è un plus di tutto ciò».
Foto di copertina di Officina Visiva
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Alberto Lupini
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