Ristorazione, prezzi alle stelle? Ecco le ragioni dei gestori

I prezzi nei ristoranti sembrano sempre più fuori controllo. Diversi i motivi che hanno spinto gli imprenditori a mettere mano ai listini in un periodo tutt'altro che facile per il settore. Inflazione a due cifre, prezzi dell’energia incontrollabili, costo del personale altissimo, materie prime in crescendo: il tutto si ripercuote su inevitabili ritocchini ai menu.

11 marzo 2023 | 05:00
di Guido Gabaldi

A Milano vi è già capitato di pagare 20 € un semplice risotto allo zafferano?  Servito dalla trattoria/osteria più o meno centrale, non dallo stellato di turno. 12 € per un dessert? 30 € per cotoletta e contorno? Acqua e coperto esclusi, s’intende. Chi gira per ristoranti, per lavoro o per passione, ha talvolta l’impressione che si stia perdendo il contatto con la realtà, con l’aumento reale dei prezzi e alla fine con la sostenibilità economica di tutta una fascia di ristorazione: quella che va oltre il fast-food a catena di montaggio e l’all-you-can-eat con gastrite a rimorchio.

I prezzi aumentano su tutti i fronti, è indubbio; è di pochi giorni fa l’indagine del Corriere della sera in merito. Un kg di pasta di qualità media oggi costa 2,3 euro: un anno fa veniva venduto a 1,96 €. In dodici mesi è aumentata del 21,3%. Stesso discorso per il riso Carnaroli, arrivato a costare 4,9 euro al chilo, contro i 3,12 euro di dicembre 2021 e i 4,47 euro di novembre 2022: +36,4%. Per il pane, invece, si rileva un +12,7% sul 2021. E vogliamo parlare dell’aumento dei prezzi dell’energia, degli affitti commerciali, degli immobili, dei mutui, della manodopera? Le percentuali variano, ovviamente, perché ad esempio il prezzo d’acquisto degli immobili a Milano, secondo l’ultimo studio condotto dal gruppo Tecnocasa, fa segnare un + 43,2% tra il 2017 e il 2022, ma la tendenza generale è quella: aumenti a due cifre.

Le opinioni degli addetti ai lavori

Per andare dal generale al particolare, proviamo a girare la domanda (spinosa) ai diretti interessati, ma dal lato dell’offerta: vale a dire chef, ristoratori, gestori di pubblici esercizi, buyers, gente che tutti giorni deve far quadrare i conti e spesso si trova fra l’incudine dell’avventore, che minaccia lo sciopero del pranzo, e il martello dei prezzi.
Un buon punto di partenza è senz’altro Matteo Scibilia, in qualità di consigliere di Epam-Fipe, l’associazione di categoria dei pubblici esercizi di Milano, Lodi, Monza e Brianza nonché di titolare del ristorante “Piazza Repubblica” a Milano, in zona stazione centrale.


E allora Scibilia il risotto a 20 € è sostenibile, per i consumatori ma anche per i ristoratori, o no?
«A volte si ha paura di dire le cose come stanno», ci risponde lo chef, «per una specie di perbenismo politicamente corretto:  e io invece denuncio che il costo del personale è andato alle stelle, e non ha smesso di aumentare. Le faccio il quadro: personale in entrata non se ne trova, quello che già lavora devi pagarlo caro e non sempre è in linea con gli standard di qualità che un ristorante degno di questo nome richiede».
Qualche dettaglio: quanto viene pagato mensilmente, al netto di fisco, previdenza e mance, un cameriere a Milano?
«Diciamo che lo stipendio varia tra i 1500 € e i 2000. Il che vuol dire che il suo costo lordo, per l’azienda-ristorante, ammonta al doppio di quelle cifre. E questo per 14 mensilità, e ancora va aggiunto il TFR  da accantonare.  Non so se il cuneo fiscale in Italia sia il più alto al mondo, ma non mi stupirebbe. Ora mi crede quando dico che il costo del personale è arrivato a pesare il 45% sul totale delle spese aziendali?»
Ma il milanese medio come reagisce a quest’impennata?
«Non mi sembra che ci sia una disaffezione generalizzata: basti pensare che molti dei ristoranti di alta fascia, con o senza stella Michelin, dove una cena vino incluso costa 200 €, sono sempre pieni: vorrà pur dire qualcosa! Il problema non è il risotto giallo a 20 €; mi preoccupa di più che in un locale di fascia media si spendano 60 € per cenare, e la qualità sia scarsa. Ecco, forse questo è più grave, e secondo me sta accadendo proprio sotto i nostri occhi a Milano. E la qualità dipende molto dalle materie prime, dal loro costo crescente; se il mio risotto è composto di burro, formaggio, zafferano, riso scadente io glielo potrei servire a 8 €, ma poi lei cosa mangia?».

Il gruppo Cocciuto

Piazza Repubblica” di Matteo Scibilia è un locale che non fa parte di un gruppo di ristorazione, e potrebbe rappresentare la barchetta che lascia il porto ed affronta il mare aperto anche con la burrasca in corso: che succede se la stessa cosa capita a un peschereccio, diciamo? Ne parliamo con  Paolo Piacentini, cofondatore del gruppo  “Cocciuto” (quattro ristoranti funzionanti a Milano)  assieme a Michela Reginato.
«A Milano, - esordisce Piacentini - il problema esiste, ovviamente, e anche noi ne subiamo le conseguenze.  I prezzi degli affitti sono aumentati molto più che altrove, e ne fa le spese un piccolo gruppo come ‘Cocciuto’, che cerca spazi per aprire nuovi punti ristorazione e si trova alle prese con un mercato impazzito. Vogliamo parlare anche del costo edilizio, ristrutturazione interni e arredi?  Per realizzare la prima apertura, nel 2018, tutto ciò ci è costato 150 mila  euro. Oggi siamo sui 400 mila. Le cifre parlano da sole: un mercato drogato dal Superbonus 110% per le ristrutturazioni edilizie ci ha lasciato questa bella eredità».
I suoi colleghi mi parlano spesso di costo insostenibile del personale. Lei è d’accordo?
«Certamente.  Le cifre che le hanno fornito, ossia 1500 € netti (come minimo)  al mese al cameriere per 14 mensilità, sono realistiche. Aumento dei costi energetici, delle manutenzioni ordinarie e straordinarie, delle materie prime, degli affitti, della manodopera e  tutto questo nello stesso momento; come si fa a non trasferire almeno parte degli aumenti  nei prezzi al pubblico? Noi siamo riusciti a contenere gli aumenti nei nostri menù sacrificando i margini di ricavo, ma volutamente non siamo andati a incidere sulla qualità. E i consumatori evoluti, con cui tutti dobbiamo confrontarci, se ne sono accorti e hanno premiato questa scelta. Certo, la tensione e il nervosismo tra i clienti li abbiamo notati anche noi,  ma più legati alla situazione generale che al prezzo della pizza o degli involtini: mesi di lockdown, di cassa integrazione, di bollette energetiche mai viste prima non potevano non lasciare strascichi».

Mannarino tra Milano e Brescia

Non lasciamo il settore della media impresa e andiamo a tastare il polso al “Mannarino”. Si tratta di un gruppo che tra Milano e Brescia consta di cinque macellerie con cucina, locali dove la carne si vede, si compra e poi o la porti a casa o te la fai preparare in loco, accompagnata da specialità culinarie tradizionali e da un buon calice di vino mediterraneo.  I fondatori sono Gianmarco Venuto e Filippo Sironi: vediamo se da quest’ultimo ci giunge qualche spunto in più.
E allora Sironi che succede, anche il prezzo delle carni fa tribolare i milanesi ?
«Senz’altro, ma non nei nostri locali: dal 2021 ad oggi i prezzi sono aumentati del 5%,  mi sembra più che ragionevole.  E per noi che acquistiamo invece c’è un bel 20% in più;  ciò vuol dire che la differenza l’abbiamo assorbita con le nostre risorse finanziarie. Il che ci mette in difficoltà, inutile nasconderlo. Ma abbiamo un vantaggio: come gruppo l’anno scorso abbiamo raggiunto una dimensione critica, e avendo una centrale d’acquisto unica siamo riusciti a fare le giuste pressioni sui fornitori per convincerli a non esagerare con i prezzi».
Vogliamo parlare del costo del personale?
«Facciamo un distinguo: il ‘Mannarino’ pagava bene i suoi dipendenti anche prima della spirale inflazionistica, prova ne sia che i tassi di sostituzione del personale da noi sono molto bassi. Se invece un’azienda si attesta su livelli retributivi inadeguati, nel momento in cui arriva la crisi e l’offerta di lavoro cala drasticamente, o si adegua o sparisce. È piuttosto semplice …».
Neanche l’affitto costituisce un problema?
«Lo è diventato all’improvviso, perché normalmente i contratti prevedono un adeguamento ISTAT, e se l’Istituto accerta che l’inflazione è al 13% tu devi pagare di più in misura corrispondente. Se invece parliamo di attività che iniziano e di contratti nuovi il discorso è diverso: a Milano le richieste dei locatori sono irragionevoli e lì c’è poco da fare, non so come andrà a finire. La conseguenza: se dovessi aprire un altro “Mannarino” a Milano mi troverei di fronte a  barriere all’ingresso altissime, difficili da superare».

Ristoro pugliese a Bergamo

Da intervistato a intervistato il panorama dei problemi è uguale nello sfondo, diverso nei primi piani: proviamo ora a vedere che succede al di fuori della metropoli, in un posto che dovrebbe essere un po’ più a misura di stipendio “normale”, “italiano”, intaccato da un’inflazione meno aggressiva. E quindi eccoci presso il “Ristoro pugliese” dei fratelli Enrico, Ivano e Monica Vitale, che da più di vent’anni  propongono le specialità della loro terra nel centro di Bergamo, non lontani dal teatro Donizetti.
Alla chef del trio Vitale, Monica,  proponiamo la stessa musica a un ritmo diverso: la sua brasciola  pugliese, piatto-signature della Domenica che al “Ristoro” si trova tutti i giorni, di quanto è aumentata?
«Non più del 10%. Ce l’abbiamo proprio come obiettivo quello di non aumentare i prezzi in modo pesante, perché abbiamo una clientela particolarmente attenta a questi aspetti. La strategia è quella di rimodulare il piatto, e quindi giocarsela sulla quantità: d’altronde non si possono fare i miracoli, è raddoppiato il prezzo della passata di pomodoro in cui la brasciola viene cucinata ma potrei fare mille esempi. Un altro elemento della strategia è la stagionalità: finite le cime di rape basta, non ce ne sono più e non compro quelle che vengono da chissà dove coltivate chissà come… e a un prezzo assassino. E anche per far passare questo messaggio serve la comprensione dei tuoi clienti».
A proposito, come va con i suoi affezionati clienti? Si lamentano, spariscono all’improvviso, che succede?
«Nella maggioranza dei casi hanno capito che il momento è difficile per tutti. Non ci hanno abbandonato: spesso, però, invece di prendere un primo e un secondo si limitano a un piatto solo e quindi consumano meno. E di conseguenza anche il lavoro sulle quantità diventa molto delicato: non puoi ridurle troppo, altrimenti deludi le aspettative di chi viene a trovarti ed è costretto a spendere di meno. Tu non lo deludi, lui ti premia con la fedeltà. Un equilibrio difficile da raggiungere, ma non abbiamo altra scelta».

 


La carrellata termina qui, e i segni di crisi economica emersi sono ben chiari e distinti: inflazione a due cifre, mercato delle ristrutturazioni drogato dal Superbonus 110%, prezzi dell’energia incontrollabili, costo del personale altissimo, materie prime in crescendo. Cambiano, evidentemente, le possibili risposte degli imprenditori: c’è chi stringe i denti e invoca la riduzione del cuneo fiscale; altri puntano sulle dimensioni aziendali per strappare prezzi competitivi ai fornitori ed evitare di stravolgere il menu; c’è chi stringe un patto tacito con i clienti = voi non mi abbandonate, io rimodulo il piatto almeno nella quantità e andiamo avanti tutti assieme; c’è chi si sforza di far passare il messaggio della qualità, e cerca di comunicare che se vuoi un buon risotto devi fare i conti con i costi delle eccellenze.  Nei momenti di difficoltà vengono fuori le risorse e le strategie più originali: resta però l’impressione che questo mercato imbizzarrito possa travolgere gli argini costituiti dalla creatività e dall’arte di arrangiarsi, e desertificare ulteriormente una rete commerciale già in crisi.

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Alberto Lupini


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