Ristoranti e digitale, resa dei conti: «Il delivery diventa marketing»

A un anno dall'esplosione del delivery, la ristorazione fa i conti con la sostenibilità di un servizio che ha costi fissi spesso insostenibili. Ora ci sono le dark kitchen che potrebbero salvare il modello di business. Per Dynamic Food Brands «non sempre fare grossi volumi equivale a grandi performance»

08 aprile 2021 | 05:00
di Nicola Grolla
Il funzionamento del food delivery potrebbe essere sintetizzato nella “regola del tre”, come le macro voci di costo a cui il business deve far fronte per restare in piedi. Si tratta del food cost, ossia quanto si spende per approvvigionarsi e preparare la materia prima; del costo di gestione del servizio richiesto dalla piattaforma di delivery; il costo del lavoro di chi lavora in cucina. «Insieme coprono circa il 90% dei costi di un impresa attiva nella consegna a domicilio», sintetizza Michele Ardoni, fondatore di Dynamic Food Brands, start-up che da circa un anno offre attività di consulenza e progettazione per brand che vogliono buttarsi nel mercato della consegna a casa e delle dark kitchen.

Un mercato dove la concorrenza, complice la pandemia e le sue conseguenze sulle abitudini di consumo degli italiani, cresce giorno dopo giorno con l’entrata in campo di nuovi player e l’evoluzione di giganti come Glovo, Deliveroo, Uber Eats e Just Eat. Risultato? «Non sempre fare grossi volumi equivale a grandi performance», commenta Ardoni.



Dopo un anno di pandemia, come è cambiato il food delivery?
Le criticità di questo modello sono esplose in un momento in cui il lockdown ha di fatto spopolato le città e abbassato il bacino di utenza ma ha visto aumentare vertiginosamente l’offerta dal momento che i negozi fisici erano costretti alla chiusura. In generale, assieme ai nostri partner ci siamo resi conto che il delivery pensato come servizio complementare alla ristorazione tradizionale e in grado di portare valore aggiunto non sempre ha rispettato le aspettative. Molto spesso, chi ha avviato un impresa di questo tipo non è poi stato in grado di definire una filiera e dei costi sostenibili. Insomma, se da un lato il food delivery ha aumentato i suoi volumi, non è cresciuto in termini di resa economica.

Cosa pesa?
Sena dubbio i costi di commissione legati al servizio di delivery. Si tratta di fee calcolate sullo scontrino, Iva inclusa; non sull’imponibile. Senza considerare poi le concessioni in termini di marketing come campagne di sconto o consegne gratis. Criteri insostenibili per i piccoli player della ristorazione.



Meglio puntare sulle dark kitchen, quindi?
Dopo le numerose attività di consulenza, fra cui quella con I Love Pokè e C-House Cafè, fra dieci giorni lanceremo il nostro format di dark kitchen in franchising. Abbiamo in programma circa 60 aperture entro il 2023 a partire da Roma, Milano e Torino. I locali saranno organizzati come la food court di un centro commerciale solo che invece di essere posizionati in periferia saranno giusto sotto casa del cliente e saranno totalmente dedicate alla consegna a casa. Al loro interno ospiteremo brand reali, con una storia e una garanzia di qualità alle spalle. L’obiettivo è quello di creare una rete di distribuzione del brand quasi a costo zero e che abbia un grande impatto a livello marketing. Sarà un’opportunità sia per i brand emergenti che vogliono crescere sia per chi è già affermato sul proprio territorio e vuole provare a espandersi in un altro. L’aspetto importante sarà comunque la qualità garantita da brand riconoscibili. Dopo un anno di pandemia, ai clienti mancano collegamenti con la vita precedente. Dei touch point esperienziali che vanno riattivati. E ci vorrà del tempo per farlo. Nel mentre puntiamo alla prossimità per creare i futuri sviluppi. Anche dal punto di vista retail.



Rimane sempre il problema della consegna a casa. Che impatto hanno avute le vicende legate alla contrattualizzazione dei rider sugli sviluppi di questo business?
Dal mio punto di vista c’è stata sicuramente una non corretta gestione della qustione da parte dei grossi operatori perché non hanno mai applicato condizioni che rendessero sicure o a tutela del cliente finale le modalità con cui operavano. L’esempio classico per me rimane quello dell’igiene dei contenitori in cui viene trasportato il cibo. Si è creato un alone di incertezza. Sono contento che questi aspetti siano venuti a galla e si siano legati a temi di carattere etico. Ma la regolarizzazione ha sicuramente un suo costo. Solo prossimamente vedremo l’incidenza di tutto ciò sulla tenuta del servizio.



Faremo prima a tornare alle nostre vecchie abitudini?
Il ritorno alla normalità sarà molto lento. A differenza di quello che tutti pensavano un anno fa, questa pandemia ha cominciato a incidere sulle abitudini in maniera profonda. Un anno di vita così intenso, seppur diverso, diventa parte del quotidiano. Certo, tutti i vari fenomeni digitali che sono esplosi si normalizzeranno ma l’incontro con il food è irreversibile. A patto che sia interpretato sotto la giusta lente.

Ossia?
La ristorazione diventerà sempre più esperienza e coinvolgimento, dalle architetture dei punti vendita al servizio in sala; mentre il delivery diventerà il marketing della ristorazione. Detto diversamente, so che non ci guadagno ma lo uso per fidelizzare i miei client oppure per acquisirne di nuovi.

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Alberto Lupini


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