Il ristorante è un'impresa Si riapre per far quadrare i conti

Per la Fase-3 si devono avere progetti chiari e l'obiettivo di non avere più costi che ricavi. Delivery e asporto non bastano se non si riorganizza la linea di produzione e vendita (cucina-sala)

09 maggio 2020 | 11:00
di Vincenzo D’Antonio
In piena Fase 2 qualcuno potrebbe azzardare che la ristorazione sta virando dal lockdown al countdown. Fosse mantenuta la data di lunedì 1 giugno, il countdown oggi segnerebbe -13. Anche se a Bolzano siano già a -2 e per qualche regione potremmo essere a -9, È su questo lasso temporale che il ristoratore si gioca buona parte delle sue possibilità di partire con il piede giusto, ritrovando serenità ed entusiasmo, insieme con i suoi collaboratori, ancor prima che l’indispensabile flusso di cassa di cui ha necessità vitale.



Memori di quanto scrivemmo qualche giorno fa a proposito del nuovo significato originale dell’acronimo Pil, divenuto Progettualità–Idee–Lungimiranza, qui di seguito indichiamo le caratteristiche principali di come dovrebbe essere il ristorante nuovo.

Innanzitutto, pietra angolare, la consapevolezza profonda che il ristorante è un’impresa. Senza se e senza ma.
È un’impresa e come tale si assoggetta alla disuguaglianza matematica:

r/c > 1.

Dove “r” indica i ricavi e con “c” si indicano i costi.

Ammirevole potenza della semplicità.

Tutto è riconducibile, nella conduzione diligente dell’impresa ristorante, al rispetto di questa disuguaglianza: in un predefinito intervallo temporale, solitamente l’anno, il totale dei ricavi deve essere maggiore del totale dei costi.

Si tratta allora di saper azionare abilmente, secondo criteri di efficacia e di efficienza, le due leve: il numeratore ed il denominatore.

Ciò compete al ristoratore per due ragioni:

  1. ne ha diritto, essendo il titolare dell’azienda;
  2. ne ha il dovere per lo stesso motivo, perché è il titolare dell’azienda e persegue il lecito scopo di ricavare utile d’impresa.

Si dà il caso che il trimestre di chiusura dell’esercizio a causa dei provvedimenti della cosiddetta Fase 1, ha comportato un decremento massiccio dei ricavi, fino a portarli molto vicino allo zero (se poi fosse stato esattamente zero, qualche considerazione laterale andrebbe fatta) ed un decremento minimo dei costi, dacché sono rimasti pressoché invariati i costi fissi e sono significativamente decrementati soltanto i costi variabili.
In questo corrente trimestre la disuguaglianza è praticamente impossibile che la formula sia stata rispettata.
Si prende atto che in questo trimestre orribile si è verificato che r/c < 1 !

Clock a zero, come suole dirsi, ad indicare: “ricominciamo” con il sano e ineludibile obiettivo di riportare l’andamento aziendale a performance tale che nell’intervallo che stabiliremo e che renderemo noto a quasi tutti gli stakeholders, si torni a r/c > 1.

Il ristorante è un’impresa, lo si è detto e qui lo si ribadisce.

E come ogni impresa ha due reparti fondamentali:
  1. la produzione;
  2. la vendita.
La produzione è la cucina. Tale situazione, con tutti gli adeguamenti del caso, permane.

La vendita è la sala. Anche questa situazione permane ma, attenzione, con una grande differenza. Se prima la sala era praticamente l’unico canale di vendita, nel ristorante nuovo, non più è concepibile che non si sviluppino e non portino margine di contribuzione altri canali di vendita.
Parliamo di takeout e di delivery.
Per takeout si intende la vendita di quanto prodotto dalla cucina con consumazione in tempo e luogo differito. È il take away o l’asporto. I
l trasferimento di prodotto al cliente avviene presso idoneo spazio all’interno del ristorante mediante apposita procedura.
Per delivery si intende la consegna al domicilio del cliente di quanto prodotto dalla cucina.
È scontato che il takeout e l delivery derivano dagli ordini effettuati per tempo dal cliente.



Ed è qui che si gioca il tutto. Ed è qui che si decide se stiamo parlando di due ulteriori canali di vendita con grande opportunità di business incrementale per il ristoratore e di nuovi orizzonti di fruibilità della ristorazione da parte del cliente. Oppure se stiamo parlando (e sarebbe l’inizio della fine) di due spiacevoli scocciature momentanee che poi . . . quando si torna alla normalità (ma alla normalità non si torna) le abbandoniamo.

Tutto si gioca, siamo chiari, sullo spessore organizzativo che diamo a questi due canali.

Quale offering (offerta di menu)? Di certo non tutto quello che si propone in sala è da riproporre sugli altri due canali. Non avrebbe senso proporre pietanze il cui consumo in tempo differito rispetto al tempo quasi immediato della sala provocherebbe caduta sensibile della pregevolezza organolettica.
V
iceversa, quante pietanze, magari cadute in oblio, non perdono appealing di gusto se non consumate all’istante ed anzi addirittura il gusto ne guadagnano? Quale packaging? Suggerirei il riuso della carta dei giornali e delle riviste e magari, se ancora se ne dispone, della carta degli elenchi telefonici! Ecco, la facezia in anno 2020 è evidente, evidentissima. E però, quante e quante pizze avevano nello scorso secolo, in raffazzonato “prendi e porta a casa” questo packaging?!  

Tutto evolve. Si tratta pertanto di dotarsi di package idoneo in ottemperanza ai nuovi obblighi di legge. Ben oltre quanto fatto d’obbligo, il package dovrà consentire il mantenimento della pregevolezza della pietanza e rendere tracciabile e trasparente il contenuto. Ciò reso facile mediante piattaforma di blockchain ed utilizzo di QRcode.

E qui ci esentiamo, ripromettendoci di parlarne a countdown con valore vicino a 15 dal fornire spunti di comunicazione al cliente in virtù di questi ulteriori touchpoint insiti nei due canali. Cosa manca ancora affinché la delivery funzioni? Manca la  . . . delivery!

Manca il soggetto terzo che effettua la consegna (delivery = consegna). Si tratta di contrattualizzare con costoro, addivenendo a quei “patti chiari” in virtù dei quali si innesca una collaborazione di cui tutti, a partire dal cliente, traggono vantaggio. Cosa manca ancora affinché funzioni la delivery, funzioni il takeout, funzioni l’articolato ed innovato servizio di sala (di cui parleremo diffusamente in altra sede), funzioni la produzione, ad intendere una cucina che resta invariata nella sua essenza, ma molto muta in articolazione e flusso di compiti da eseguire? Suvvia, cosa manca affinché l’ardimentoso raggiungimento della disuguaglianza r/c > 1 non sia velleitario bensì concretamente raggiungibile?
Torniamo al al concetto forte di ristorante = impresa a tutti gli effetti, senza se e senza ma.
Un’impresa vive di produzione e di vendita, lo sì è già detto. Ma affinché l’impresa possa far funzionare profittevolmente le linee di produzione e di vendita deve dotarsi di uno staff efficace ed efficiente. Lo staff in questione è costituito dal Personale e dall’Organizzazione.



Il ristorante nuovo non può avere personale non nuovo. Per personale nuovo si vuole qui intendere il ritorno in attività delle persone già in organico, ma attenzione, previo necessaria formazione! Formazione, ancor prima di addestramento, anch’esso necessario. Sono le cosiddette soft skills. Saper aprire le loro menti e renderli pronti nell’affrontare lo scenario nuovo che si prospetta sin dal pre opening. Nuove mansioni in cucina, in sala, in back-office. E l’Organizzazione? Senza una nuova organizzazione, da rendere fruibile nei suoi cardini sin dal pre opening, non si va da nessuna parte. Ed il sistema cardiocircolatorio su cui si innerva la nuova organizzazione è dato dalla tecnologia. Ordini ai fornitori, gestione di magazzino, rapporti con le banche, pagamenti, incassi, gestione della delivery e del takeout, approntamento menù e carta dei vini, manutenzione del website, gestione costante dei social, relazione con gli stakeholders. Tutto ciò o mediante appropriata tecnologia la cui sembianza ergonomica è data dal dashboard, oppure si faticherà tanto per lavorare poco.
Sovente sentiamo dire e noi stessi diciamo: “coraggio, ripartiremo più forti di prima”. Giusto, va bene. Ci stiamo dando tutti coralmente la (virtuale) pacca sulla spalla e cerchiamo di infonderci vicendevolmente coraggio.      Ma, riflettiamo insieme.

Ma non eravamo già sufficientemente forti prima?
Che significa ancora più forti?
Se vogliamo andare oltre l’augurio apotropaico, allora dobbiamo individuare i pregressi punti di debolezza e su questi punti specifici lavorare seriamente e serenamente onde capovolgerli in punti di forza.

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Alberto Lupini


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