Pasta, boom di consumi con il covid In sei mesi vendite su del 23%
La pandemia da coronavirus spinge il consumo di pasta di grano duro, soprattutto quella prodotta 100% in Italia: nel primo semestre del 2020 si registrano aumenti del 23% in quantità e del 28,5% in valore
12 ottobre 2020 | 16:06
Il coronavirus non ha fermato la pasta. Anzi: nei primi sei mesi dell'anno i pastifici italiani hanno affrontato un picco di richieste, che si è tradotto in una crescita a doppia cifra, in valore, della produzione. In particolar modo, la pandemia ha premiato solo il Made in Italy. I consumi di pasta con grano duro di origine solo nazionale - conferma il report Ismea Tendenze sul frumento duro - nel primo semestre mettono a segno aumenti del 23% in quantità e del 28,5% in valore. Questo in controtendenza rispetto all'andamento in calo degli acquisti nazionali di pasta generica. Il dato conferma «in un comparto ormai maturo, che il richiamo all'origine nazionale della materia prima ha fornito un forte e nuovo stimolo per le famiglie».
Il peso della pasta 100% italiana sui consumi totali di quella di semola secca, segnala Ismea, è costantemente aumentato: da una quota del 14% in volume e del 17% in valore nel 2018, ha superato nei due casi il 20%. Durante i mesi del lockdown, le vendite di pasta sono risultate in netto aumento: nei primi sei mesi del 2020 fanno infatti segnare una crescita su base annua dell'8% in volume, e del 13,5% della spesa.
Questo in un quadro difficile in cui le misure restrittive hanno esposto le industrie della trasformazione molitoria e pastaria italiana a una forte vulnerabilità, data la strutturale dipendenza dalla materia prima estera. Ismea ricorda, infatti, che i quantitativi di granella che provengono oltre frontiera oscillano annualmente tra il 30% e 40% del fabbisogno delle imprese.
Bene anche l’export con la filiera della pasta e dei dolci che hanno realizzato il maggior contributo alla crescita dell'export agroalimentare arrivando a superare il miliardo di euro, con un incremento del 27,6% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (dati primo trimestre dell'anno del Monitor sui distretti agroalimentari di Intesa Sanpaolo).
L'Italia esporta più della metà della pasta che produce (il 56%) per un valore (dati 2017) di 2,4 miliardi di euro, mentre di grano duro di qualità siamo deficitari (ne importiamo ogni anno grandi quantità). Il problema si risolverebbe producendo più grano duro e di maggior qualità. Ciò sarebbe possibile con l'interprofessione, cioè contratti di filiera (produttori-mulini-pastifici), con prezzi garantiti ai produttori e impegno a favorire qualità e tracciabilità, per contrastare la volatilità dei prezzi all'origine del grano. «Aggregazione e contratti di filiera sono il futuro - dice Agrinsieme (coordinamento fra Cia-Agricoltori italiani, Confagricoltura, Copagri e Alleanza Cooperative Agroalimentari) - Anche quest'anno, nonostante l'impennata dei consumi di pasta, il prezzo del grano ha subìto rialzi molto contenuti, a dimostrazione.
Cresce il consumo di pasta nel 2020
Il peso della pasta 100% italiana sui consumi totali di quella di semola secca, segnala Ismea, è costantemente aumentato: da una quota del 14% in volume e del 17% in valore nel 2018, ha superato nei due casi il 20%. Durante i mesi del lockdown, le vendite di pasta sono risultate in netto aumento: nei primi sei mesi del 2020 fanno infatti segnare una crescita su base annua dell'8% in volume, e del 13,5% della spesa.
Questo in un quadro difficile in cui le misure restrittive hanno esposto le industrie della trasformazione molitoria e pastaria italiana a una forte vulnerabilità, data la strutturale dipendenza dalla materia prima estera. Ismea ricorda, infatti, che i quantitativi di granella che provengono oltre frontiera oscillano annualmente tra il 30% e 40% del fabbisogno delle imprese.
Bene anche l’export con la filiera della pasta e dei dolci che hanno realizzato il maggior contributo alla crescita dell'export agroalimentare arrivando a superare il miliardo di euro, con un incremento del 27,6% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (dati primo trimestre dell'anno del Monitor sui distretti agroalimentari di Intesa Sanpaolo).
L'Italia esporta più della metà della pasta che produce (il 56%) per un valore (dati 2017) di 2,4 miliardi di euro, mentre di grano duro di qualità siamo deficitari (ne importiamo ogni anno grandi quantità). Il problema si risolverebbe producendo più grano duro e di maggior qualità. Ciò sarebbe possibile con l'interprofessione, cioè contratti di filiera (produttori-mulini-pastifici), con prezzi garantiti ai produttori e impegno a favorire qualità e tracciabilità, per contrastare la volatilità dei prezzi all'origine del grano. «Aggregazione e contratti di filiera sono il futuro - dice Agrinsieme (coordinamento fra Cia-Agricoltori italiani, Confagricoltura, Copagri e Alleanza Cooperative Agroalimentari) - Anche quest'anno, nonostante l'impennata dei consumi di pasta, il prezzo del grano ha subìto rialzi molto contenuti, a dimostrazione.
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