No al nome "carne" per quella vegetale? Per gli chef cambia poco

Dopo l'incontro con il senatore Centinaio, forse sventato (ma il ddl è alla Camera) il rischio di un vincolo normativo sulle denominazioni di prodotti a base vegetale che richiamano salumeria, macelleria e pescheria «Insensato equiparare i prodotti a base vegetale alla carne sintetica». Se per i produttori è un paradosso, per gli chef cambiare o non cambiare non è un problema

04 ottobre 2023 | 05:00
di Giambattista Marchetto

L’inflazione? I rincari drastici nel carrello della spesa? La crisi delle materie prime? Tutte minuzie, perché sembra che in Europa la priorità per le istituzioni sia lo scandalo della "bresaola veggie" oppure di un "hamburger di tofu", per non parlare della disastrosa confusione che generano nel consumatore le diciture "polpette vegetali" o “grigliata di seitan”. In Francia è partito l’iter per un decreto nazionale per vietare l’utilizzo connesso a prodotti a base di proteine vegetali per una nomenclatura che per decreto divino deve rimanere legata alla carne - da filetto e controfiletto fino a costata, lombata, bistecca, scaloppina, costolette, prosciutto e pure una sontuosa grigliata. Il paradosso è che anche in Italia il contagio sembra preoccupare non solo i solerti governanti, ma anche le associazioni di categoria, tanto che Coldiretti (sì, proprio Coldiretti) ha lanciato una crociata contro la confusione generata da “veggie burger” et similia. E il vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio ha subito raccolto l’appello, partendo lancia in resta con il collega Giorgio Maria Bergesio e introducendo un emendamento “fuori tema” nel disegno di legge governativo che intende impedire la produzione e la commercializzazione in Italia di alimenti e mangimi sintetici. Risultato? Un po’ di confusione e molta preoccupazione per le aziende che operano nel settore. In ogni caso cambiare o non cambiare nome per chef e ristoranti non è un problema.

Il paradosso del veggy burger spiegato dalle aziende

A luglio le aziende del gruppo Prodotti a base vegetale di Unione Italiana Food esprimevano “profonda delusione e preoccupazione” per l’approvazione in Senato dell’emendamento. «I prodotti a base vegetale sono di casa sulle tavole di oltre 20 milioni di italiani - rimarcavano da Unionfood - che li consumano regolarmente e che da oltre 30 anni sono abituati a chiamarli così. Si tratta di consumatori che li hanno provati, apprezzati e che hanno deciso di inserirli nella loro dieta. Lo hanno fatto per esigenze di salute, per questioni etiche, per aumentare il consumo di vegetali, e per diverse altre ragioni, ben consapevoli di cosa sono fatti. Chi li sceglie legge bene le etichette e le valuta chiare, trasparenti e complete, sia sugli ingredienti, che sui valori nutrizionali».

Allora perché questo intervento? Si chiedono i produttori! E perché inserire l’emendamento in un disegno di legge che si occupa di cibo sintetico «con cui i nostri prodotti non hanno nulla in comune, né per caratteristiche, né per materie prime usate (i prodotti a base vegetale sono realizzati, appunto, solo con materie prime agricole di origine vegetale), né per lavorazione?».

Prodotti plant-based, comparto in crescita in Italia

Si tratta di un comparto che nel 2022 ha sviluppato 680 milioni di fatturato con una crescita del 9%, passando dalle farine ai piatti pronti al gelato alle bevande. «È una categoria che cresce grazie all’evoluzione nei consumi degli italiani - precisa Sonia Malaspina, presidente del Gruppo Prodotti a base Vegetale di Unione Italiana Food - e i nostri prodotti sono frutto della lavorazione di materie prime vegetali di origine agricola che stanno nella filiera della dieta mediterranea. Abbiamo aziende che sono presenti sul mercato da trent’anni e ormai il settore è uscito dalla nicchia, ma cambiare la nomenclatura adesso creerebbe solo confusione».

«Cosa dovremmo dire del salame di cioccolato della nostra infanzia – si chiede ironicamente Malaspina – per non parlare delle polpette di melanzane… stiamo ragionando su termini che esistono da sempre in cucina. E poi vorremmo capire perché si pone il problema, quando il consumatore sa benissimo che, quando acquista nugget vegetal, sta scegliendo un’alternativa vegetale al pollo. Il cambio sul packaging comporterebbe non solo un aggravio di costi per le aziende, ma soprattutto un disorientamento per il consumatore che è abituato a certe denominazioni. Non si può certo parlare di inganno e mi risulta che le associazioni dei consumatori siano pienamente d’accordo con noi. Siamo in prima linea per lavorare con loro, perché le etichette siano sempre chiare. La consapevolezza del consumatore è in realtà il nostro punto di forza».

Centinaio: «Sbagliato equiparare i prodotti plant based con la carne sintetica»

Il percorso di confronto con il Governo procede e Unione Italiana Food ha incontrato il vicepresidente del Senato, Gian Marco Centinaio, che a margine del summit ha rilasciato una dichiarazione sicuramente più comprensibile. «Quello con i rappresentanti delle aziende di prodotti a base vegetale è stato sicuramente un confronto importante. Parliamo di un comparto formato da aziende italiane ed estere che producono valore, danno occupazione a tante persone nel nostro paese e realizzano prodotti che rispondono a una precisa richiesta del mercato. Proprio per questo, è giusto sottolineare che i prodotti a base vegetale non hanno nulla in comune con il cibo coltivato in laboratorio, né per caratteristiche, né per materie prime usate, né per le garanzie di sicurezza fornite ai consumatori. I prodotti a base vegetale, infatti, sono realizzati con materie prime agricole tradizionali, che fanno parte da sempre della nostra cultura alimentare: verdure, cereali e legumi».

Parole "rassicuranti", che però non fanno abbassare la guardia alle aziende, perché il pericolo non è sventato dato che l'iter parlamentare è ancora in corso, l'emendamento in questione è già stato approvato in Senato e il testo del ddl è ora passato al vaglio della Camera.

Nomi dei prodotti a base vegetale? Nessun problema nei ristoranti

Viene da chiedersi quale impatto ci possa essere sull’Horeca. E sembra che chef e ristorazione non siano troppo preoccupati. «Per andare avanti, bisogna fare un passo indietro - osserva Giuseppe Daniele, chef dell’Unitum a Seregno (Mi) – perché la semplicità è spesso sottovalutata, ma fondamentale. La comprensione di base dei cibi e delle materie prime ci aiuta a prendere decisioni informate riguardo a cosa consumiamo e come influisce sulla nostra salute e sull'ambiente. Inoltre, la chiarezza nelle parole ci consente di comunicare in modo efficace con gli altri, facilitando la condivisione di informazioni e la collaborazione su questioni importanti. In un mondo sempre più complesso e interconnesso, tornare alle basi e utilizzare parole chiare per definire ciò che facciamo e consumiamo è un passo nella giusta direzione per affrontare sfide come la sostenibilità alimentare e l'educazione alimentare».

Nel frattempo, Lorenzo Murray di Classico Trattoria & Cocktail a Milano dice solo che «utilizzeremo le nomenclature suggerite, cambiando tutto immediatamente appena dovesse passare la norma». Poco cambia secondo Antonio Guida chef del Seta al Mandarin Oriental Hotel di Milano, che gioca molto con basi vegetali e però propone un piatto imperniato su un filetto vegetale. «Non si tratta di scimmiottare nulla - spiega - e nessun piatto è un finto filetto o un finto burger. Tutto sommato possiamo prendere lo spunto di questa possibile evoluzione normativa per utilizzare maggiormente la fantasia, risolvendo il problema inventando nomi di piatti che siano più originali».

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Alberto Lupini


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