Milano, affitti stellari e pochi clienti La crisi dei piccoli commercianti

In Galleria Vittorio Emanuele hanno già chiuso in due: la coltelleria-pelletteria Mejana e il negozio di cravatte Andrew’s anche a causa di affitti da 80mila euro all’anno per 28 metri quadri . L'assessore al Demanio, Roberto Tasca: «I conti del Comune devono tornare, non possiamo solo favorire i commercianti»

23 febbraio 2021 | 08:31
di Guido Gabaldi
Di fronte alla crisi economica da infezione, cosa state facendo per noi? Questa è la domanda, tra lo scettico e il risentito, che i commercianti pongono a politici e amministratori, e non da oggi. Per perdere tempo in un italico scaricabarile? Forse no, magari per aggrapparsi a qualsiasi appiglio che impedisca il fallimento. Se lo domanderà anche chi svolge la sua attività nella Galleria Vittorio Emanuele II di Milano, l’emblema di una città che vive (anche) di arte, fiere e commercio, il salotto che si affaccia su piazza Duomo: malinconico e vuoto, a undici mesi dall’inizio del lockdown.

La Galleria Vittorio Emanuele III a Milano

Abbandoni e obiettivi
Recente la notizia della coltelleria-pelletteria Mejana che non riaprirà più, proprio come il negozio di cravatte Andrew’s Ties. Detto così, sembrerebbe che il salotto mandi via dal club i più deboli, travolti dalla mancanza di clienti, e obbligati a pagare comunque un numero insopportabile di spese fisse, tra cui gli affitti: 80mila euro all’anno per 28 metri quadri, nel caso della coltelleria. In compenso, arrivano i nuovi contratti di quelli con le spalle larghe, tra cui Dior, che pagherà al Comune 5,5 milioni, e Fendi, che ne sborserà solo 2,4. Per il nuovo negozio Rolex, infine, ci si dovrà accontentare di 875mila.

L’obiettivo del Comune di Milano è 40 milioni di euro l’anno, solo di canoni di affitto, in un momento in cui le entrate sprofondano anche per l’amministrazione meneghina: -308 milioni dal trasporto pubblico locale, -45 dalla tassa di soggiorno, -82 dai dividendi delle società partecipate.

Ma è questa la soluzione per salvare il bilancio comunale milanese? Il darwinismo economico, anche a spese di botteghe storiche, in Galleria da cent’anni? Giriamo la questione a uno di quelli che in questo momento si trova il cerino acceso in mano, come Roberto Tasca, assessore a bilancio e demanio del Comune di Milano.

«Allora: Andrew’s Ties e Mejana coltelleria-pelletteria sono andati - sottolinea l’assessore - ma altri sono rimasti. Marchi storici importanti: il ristorante Biffi, il Savini, il Salotto di Milano, il Camparino. Le librerie, a partire da Bocca, ci sono tutte. Noli è una tabaccheria anch’essa storica, un’azienda familiare, e gli abbiamo rinnovato la concessione. Il fatto è che bisogna essere in grado di stare in Galleria, e mi riferisco alla redditività dell’impresa. Il Comune di Milano non è un benefattore, è un ente pubblico. Diamo in servizi ai cittadini quello che riscuotiamo. Cosa è meglio: avere risorse in più per i servizi oppure mantenere in Galleria un‘impresa che non ce la fa a stare in quel posto? Facciamo un referendum e vediamo cosa ne pensano i cittadini. Se non abbiamo come punto di riferimento i prezzi di mercato, finiamo col regalare vantaggi, sconti o favori a dei privati, e io come assessore dovrei farlo in nome e per conto della città di Milano? Non sarebbe equo, dal punto di vista amministrativo».

Ma secondo lei, assessore Tasca, il processo di sostituzione continua? I grandi gruppi sostituiscono le botteghe familiari?
I grandi gruppi generalmente puntano ai grandi spazi, e in questo momento in Galleria non sono tanti. Io dico che la sostituzione continuerà ad esserci fra ciò che è economicamente sostenibile e ciò che non lo è. E d’altro canto in un luogo la cui storia è partita nel 1878 le sostituzioni fanno parte di un processo naturale. Se Milano diventa un polo internazionale è chiaro che i marchi internazionali si comprano i loro spazi commerciali. Ma, ancora una volta, questo non significa cancellare la storia. Nel 2020, infatti, avvevamo 22 concessioni in scadenza. Di queste, 9 sono state rinnovate con uno sconto, tenendo conto dei requisiti di storicità e del fatto che un’impresa/marchio può rappresentare un elemento identificativo della Galleria. In tali casi le gare non sono state fatte, ma ora i concessionari comunque pagano di più, rispetto a prima,  pur essendo il nuovo canone scontato, rispetto ai prezzi di mercato, di una percentuale fra il 15 e il 20%. Il principio è sempre quello: nessuno può attribuirsi il diritto assoluto di stare in Galleria, a nessun titolo. Io sono un cittadino milanese figlio di milanesi, e ritengo che un pezzettino della Galleria sia anche mio.

Al di là della Galleria: le azioni più importanti del Comune a favore del commercio in genere?
Solo un esempio: abbiamo dato la possibilità di occupare suolo pubblico gratutitamente, nel 2020. Abbiamo avuto 1.800 richieste di occupazione per compensare i minori spazi al coperto. La misura va avanti fino al marzo 2021, poi dovremo decidere.  Ma devo comunque ricordare che l’anno scorso abbiamo perso 630 milioni di entrate, e la legge obbliga i Comuni al pareggio fra entrate ed uscite. Quindi, per raggiungerlo, devo ridurre le seconde o aumentare le prime. I tributi locali non posso aumentarli, perché in questo momento di depressione economica è improponibile. Non posso, per gli stessi motivi, agire sul prezzo di mense, servizi ai disabili, servizi scolastici etc. La crisi è generale, non si può pensare di andare incontro ai commercianti e dimenticarsi di tutti gli altri.

Ci sarà un trasferimento dello Stato, a favore del Comune di Milano, di 480 milioni, ma andare a recuperare quei 150 milioni che mancano sarà comunque arduo. Per il 2021 proveremo a fare altri tagli alle spese della struttura comunale, cosa che abbiamo fatto anche l’anno scorso, ma non potranno coprire tutto il fabbisogno. E quindi chiederemo ulteriori aiuti al Governo ben sapendo che l’ultima legge di bilancio nazionale stanzia la cifra di 450 milioni per la totalità dei Comuni italiani. Se le condizioni sono queste, la divaricazione fra la realtà e il bisogno è incolmabile.

Libreria Bocca: la storicità non basta a sopravvivere
Che la realtà fosse un quadro a tinte fosche lo sapevamo, e l’assessore al bilancio Roberto Tasca ci conferma che i miracoli, per riportare il sereno tra le poste contabili, non li fa nessuno.  Ma bisogna sentire anche l’altra campana, quella dei negozi colpiti dalla sparizione del fatturato, per capire davvero a che punto del tunnel siamo. Ci siamo rivolti alla libreria Bocca, altro negozio storico portato avanti dalla famiglia Lodetti, per chiedere se in Galleria si vociferi di altre imprese pronte a chiudere i battenti.

«Non ho colto nessuna voce di corridoio, anzi di Galleria - dice amaramente Giorgio Lodetti - ma di certo la situazione è tragica. Anche una libreria d’arte come la nostra, rilevata quarant’anni fa e con una storia secolare alle spalle, soffre tremendamente, nonostante la fedeltà della nostra piccola nicchia di clientela. Non siamo un negozio generalista, vendiamo edizioni costose, esclusive, legate al mondo dell’arte, e col tempo siamo diventati un centro di aggregazione culturale: ma tutto questo non basta, se ti capita di aprire la saracinesca un bel giorno ed ospitare, da mattina a sera, un solo cliente».

Cosa accadrebbe se il canone di concessione che paga al Comune dovesse raddoppiare?
Non voglio pensarci in questo momento perché il contratto scade nel 2025. Le idee per rilanciare l’attività non mancano, a partire dall’utilizzo dei social network: ma gli eventi che organizziamo servono a stimolare la vendita in presenza, senza di quella siamo finiti. La libreria Bocca vive del rapporto fra libraio e acquirente, la gente entra qui anche per ammirare l’organizzazione degli spazi e per ricevere una consulenza, prima del comprare c’è un discutere e un argomentare: come si fa a riprodurre online una cosa del genere? Lo ripeto, sono convinto che il nostro ambito di mercato sia così particolare da poter ripartire subito, finito il lockdown: ma è necessario riaprire.

Che cosa chiederebbe lei al Comune di Milano, o alle istituzioni in genere?
Dateci una mano dal punto di vista finanziario. Ma non distribuendo mance a pioggia, perché quello è buttare i soldi: premiate chi ha un progetto vero, chi ha dimostrato con la sua storia di saper intercettare i gusti del pubblico, chi ha delle idee che si traducono in fatturato. Oppure: riproponete iniziative che hanno già funzionato, perché evidentemente hanno più probabilità di successo. Datemi di nuovo la possibilità, a costo zero, di occupare lo spazio esterno di fronte alle mie vetrine, ed io posso organizzare qualsiasi cosa, qualsiasi evento, dando una visibilità essenziale al mio servizio. Senza dovermela pagare.

L'apertura giusta nel posto giusto
Passando ora alla ristorazione, altro elemento trainante di quella che nel pre-Covid era diventata una capitale del cibo e del vino, abbiamo pensato di sondare il terreno allontanandoci un po’ dal centro di Milano: in via Don Bosco, non ancora periferia ma su quella strada lì, stretta da Morivione e Vigentino da un lato, e Calvairate dall’altro versante di corso Lodi.

«Il nostro piccolo ristorante, il “Sottobosco” - spiega il titolare Giorgio Raffaghelli - ha aperto da poco più di un anno, e questo quartiere ha proprio accolto me e mia moglie: strano a dirsi, per Milano, ma si respira un’aria popolare, quasi da paese. Una specie di grande famiglia, insomma»

Ma poi a tre mesi dall’apertura arriva il Covid-19, e va tutto all’aria, o no?
Tutto o quasi. Il rapporto con la gente del quartiere e le conoscenze acquisite ci hanno salvato, in un certo senso. Abbiamo continuato con il delivery, abbiamo ricevuto tante ordinazioni dalle famiglie,  siamo riusciti a non aumentare i prezzi: insomma, pur fra mille difficoltà l’attività è rimasta in piedi. Abbiamo adattato al massimo il menu alle esigenze della consegna a casa, privilegiando piatti parzialmente cotti, da portare a termine a casa, come lo stinco affumicato e la cassoeula in sottovuoto. E ha funzionato: la qualità del piatto non ne ha sofferto.

Ma il suo “Sottobosco” ha visto l’aiuto, in qualche modo, della mano pubblica?
Certo, ad esempio con il credito d’imposta: significa pagare a prezzo pieno tutte le spese fisse, ma poter detrarre il 60% dalle tasse. Una vera boccata d’ossigeno. Il tema delle spese fisse di un ristorante è cruciale, avremmo gradito un aiuto anche nei rapporti con i fornitori di energia e acqua, che abbiamo dovuto comunque pagare. E le misure messe in campo hanno funzionato a singhiozzo: non è possibile che i miei dipendenti non abbiano ricevuto cinque mesi di cassa integrazione. A questo punto i soldi glieli ho anticipati io, attingendo dal mio patrimonio personale: ma in una situazione terribile come questa ci vorrebbero più precisione ed efficienza, non la solita approssimazione.

Ristoratori che s’indebitano, imprenditori che fanno da banca per i dipendenti, librai che non sanno più come promuovere la propria attività: raccogliendo  in giro un po’  di storie si può collezionare un campionario drammatico ed esemplare al tempo stesso. Se dovessimo giudicare dalla resilienza e dalla rabbia repressa che abbiamo visto accumularsi quasi ovunque, ci sarebbe da essere perfino ottimisti per il futuro: ma a questo punto qualsiasi fuga in avanti è impensabile, prima che inutile. Resta solo da augurarsi che l’appello all’inventiva, all’efficienza e all’equità che raccogliamo quotidianamente nel mondo delle piccole aziende, dei bar e dei ristoranti, e che vorrebbe raggiungere tutte le istituzioni, non cada nel vuoto. La voglia di ripartire c’è, le giuste misure bisogna ancora trovarle.

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Alberto Lupini


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