Lavoro in nero e cocaina? Il volto oscuro della ristorazione

Per le ricerche di Restworld un locale su tre sarebbe costretto ad avere parte dell'occupazione irregolare. E in più ci sarebbero troppo stress e pressioni psicologiche sulle brigate dell'alta ristorazione italiana . Burocrazia, costi elevati del lavoro, scarsa flessibilità sono le giustificazioni che emergono dal campione di addetti oggetto dello studio

21 settembre 2020 | 13:08
La pressione psicologica nel mondo dell’alta ristorazione e della Cucina in generale è sempre più forte. Anche in tempo di Covid-19. È chiaro che un ristorante rinomato e magari stellato abbia molta paura di perdere la sua fama e ancora più grave le sue stelle. Perciò il gestore o lo chef patron si trova a dover far fronte ad aspettative sempre più alte e sempre più pretenziose. Quelle aspettative si tramutano in stress e ansia da prestazione per tutta la brigata. È da qui che è partita la startup RestWorld chiedendosi se i lavoratori di un locale che fa parte del mondo dell’alta ristorazione può usare qualche “aiutino” per affrontare il panico che può derivare da una condizione di forte stress lavorativo. Una domanda che, come vedremo, solleva un velo su cui, con prudenza e discrezione, è fondamentale riflettere con serenità.  Una situazione, dobbiamo essere chiari, che pochi ammetteranno, ma che ha avuto un testimonial di prima grandezza giusto l'anno scorso, quando Gordon Ramsay aveva dichiarato che «qualsiasi chef o cameriere vi dirà che in tutti i ristoranti gira la cocaina, ma per me è una questione molto personale». Lo chef da 14 stelle Michelin tra i più celebri in tv, era stato più ch esplicito nel documentario che aveva girato per raccontare e esplorare l’uso delle droghe, in particolare la cocaina, nel mondo della ristorazione e dell’ospitalità. Un problema che lui conosce molto da vicini, dal momento che da anni si trova ad affrontare la tossicodipendenza del fratello Ronald e nel 2003 ha perso uno dei suoi migliori collaboratori, David Dempsey, proprio per un’overdose di cocaina.



Ma iniziamo a chiederci chi è Restworld?

RestWorld è una startup torinese che si occupa di “servire” il personale dell’ho.re.ca. Il loro motto è per l’appunto: “Voi servite gli altri, noi serviamo voi”. La priorità di questa azienda piemontese è quella di valorizzare il capitale umano con lo scopo di sconfiggere il lavoro in nero, garantire il benessere lavorativo, ridurre la disoccupazione, favorire l’inclusione. Insomma un progetto importante per migliorare e rendere più efficiente il settore Ho.Re.Ca al servizio del lavoratore e del suo benessere.

A tal proposito già la scorsa settimana RestWorld aveva pubblicato i risultati di un sondaggio più che interessante. In collaborazione con OCCCA (community che conta più di 160.000 impiegati nel settore Ho.Re.Ca), la startup torinese ha intervistato nello scorso luglio 3471 persone di età compresa tra i 20 e i 40 anni, di cui

  • il 77% addetti ai lavori nel settore della ristorazione
  • il 12% titolari di imprese ricettive
  • il restante 10% è estraneo a questo settore



Un campione modesto ma in qualche modo capace di dare indicazioni preziose. Se il dato dovesse essere rappresentativo del sistema nazionale, vorrebbe dire che circa mezzo milione di addetti sarebbero, con modalità diverse, in condizione di irregolarità.

L’oggetto dello studio era capire quanto il lavoro in nero sia diffuso nel comparto. Il 91% degli intervistati ha affermato di aver avuto esperienze lavorative in nero, e un 54% lamenta irregolarità nel proprio contratto lavorativo. Il 68% degli imprenditori dichiara di aver “assunto” manodopera irregolarmente, con la giustificazione di aver avuto immediato bisogno del lavoratore, una necessità che mal si sposa con iter burocratici di un’assunzione regolare. Pensiamo solo a tutti i problemi assurdi creati dall’abolizione dei voucher a causa dell’ignoranza sul settore da parte dei politici.

Pur non volendo giustificare i datori di lavoro, RestWorld fa emergere la necessità di contratti più adatti per il comparto che si adattino alle realtà della ristorazione.

  • Il 36% degli imprenditori dichiara che l’assunzione regolare presenta dei costi eccessivi e non sostenibili
  • il 21% invece si lamenta di un carico burocratico molto pesante
  • il 63% si dichiara in regola
  • il 37% invece dichiara di avere personale in nero 
Se iI 63% degli imprenditori intervistati dichiara di aver assunto i propri dipendenti nel pieno rispetto della contrattualistica, resta quindi un 37% di imprenditori del campione che invece ammette irregolarità: Ci sarebbe da chiedersi perché più della metà dei titolari di impresa, sempre del campione, riesce invece a lavorare nel rispetto delle regole.

Gli ostacoli al rispetto dei vincoli legislativi in materia di lavoro dipendente sono reali ed evidenti, ma le contraddizioni emerse sono sintomatiche di un problema altrettanto radicato e complesso. Restworld parla in proposito di un dilagare dell’evasione fiscale e di una placida rinuncia da parte dei dipendenti alle tutele contrattuali che sarebbero entrambi aspetti di una mentalità che legittima il non rispetto delle regole in virtù di difficoltà apparentemente insuperabili, ma che vengono invece rimosse da un nutrito numero di imprese che quelle stesse regole le rispetta. Siamo in presenza di quella mentalità che parte dall’idea che le istituzioni siano inefficaci nel sostenere l’impresa e i redditi dei lavoratori.

Ma RestWorld, come detto, non si è voluto fermare al dato del lavoro nero. Ritornando al discorso sulle droghe nel mondo della ristorazione, la start up ha avviato uno studio a tal proposito. Tre delle domande che sono state poste agli intervistati (su un campione di persone analogo al sondaggio precedente) sono queste:
  1. Cosa ne pensi di effettuare, annualmente, test antidroga a chi lavora nella ristorazione?
  2. Se le persone che lavorano nella ristorazione risultassero positive ai test antidroga, quali provvedimenti andrebbero presi?
  3. Nel locale dove lavori, c'è chi fa uso di cocaina?

Una delle risposte che è stata data alla prima domanda è stata questa:
«È inutile fare il test, se non si risolvono i motivi che determinano l'uso di droga».
Da questa risposta è chiaro come si dia quasi per scontato l’uso di stupefacenti, in particolare la cocaina, nel mondo della ristorazione ed i motivi che giustificano tale necessità sembrano essere impliciti nella risposta: lo stress dovuto a ritmi di lavoro sia quantitativi che qualitativi per poter mantenere standard di qualità imposti da “classifiche” farlocche come quelle stilate da Tripadvisor o assolutamente da pressione esagerata come la Guida Michelin.

Alla seconda domanda invece c’è chi ha risposto nel seguente modo:
«Dove lavoro attualmente, per fortuna, nessuno ne fa uso, ma sappiamo benissimo quali sono i ritmi di questo mestiere. Mansioni adatte a due-tre persone che vengono svolte da una soltanto, clima teso e confusionario e via dicendo. Se fossi il titolare, probabilmente, manderei una lettera di richiamo. Ma, da operatore, dico che basterebbe avere la quantità di personale proporzionata alla mole di lavoro, andando ad eliminare stress e turni doppi o tripli. Credo che chi fa uso di droghe per lavorare dovrebbe avere le giuste ore di riposo per eliminarne la "necessità"».

Infine alla terza domanda è stato risposto in questo modo: «Perché, lavorando di notte, ci si sente diversi, forse anche speciali in un certo senso, siccome di notte si può fare praticamente tutto. Ma diversi anche in quanto non accettati da una società diurna che, spesso, ci considera come gli "sballoni", gli altri, quelli fortunati perché fanno un lavoro in cui ci si diverte. Un po' per complessi propri, un po' per emarginazione, un po' perché lo fanno tutti, nei ristoranti nevica peggio che a Courmayeur in alta stagione».



Al di là che alla fine il consumo di “aiutini” (diffusi peraltro in molti ambienti, dallo spettacolo alla magistratura, non esclusi i politici come denunciarono anni fa Le Iene) si possa ridurre magari solo a marginalità, resta il fatto dell’elevato stress di molte brigate di cucina. Un dato che oggi potrebbe essere aggravato da una riduzione del numero degli addetti in cucina in questo periodo. Il che ci riporta alla condizione del mercato del lavoro di un comparto dove ci sono forse troppe attività, con l’aggravante oggi della pandemia.

La situazione impone una profonda riflessione per comprendere meglio la realtà del fenomeno e gli agganci fra lavoro e nero e stress che porta magari ad assumere droghe. Le attività ricettive e ristorative italiane (pur nella crisi attuale che potrebbe portare a molte chiusure) costituiscono uno dei principali comparti del nostro sistema produttivo, con oltre un milione di lavoratori impiegati.

La diffusione di pratiche irregolari a livello di occupazione incide fra l’altro sulle dimensioni del ricordato fenomeno particolarmente presente nel nostro Paese: l’evasione fiscale. È da qui che sono scaturite ad esempio alcune polemiche sulla gestione della cassa integrazione. Nella maggior parte dei casi i mancati pagamenti erano dovuti ai ritardi dell’Inps, ma in non pochi casi i mancati aiuti ai lavoratori erano dovuti al fatto che erano in nero. Per onestà di cronaca bisogna ricordarlo. Non si deve in ogni caso generalizzare, anche perché l’ISTAT distingue differenti categorie di lavoro non regolare: continuative, occasionali, di stranieri non residenti e da attività plurime. E da questo punto di vista le molteplici forme di irregolarità all’interno dell’Ho.re.ca. corrispondono al tentativo di superare alcune criticità scaturite da problematiche come la lunghezza dell’iter di assunzione o i costi del lavoro, percepiti come inefficienti e sproporzionati alle possibilità di ricavo.

Per info: RestWorld

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Alberto Lupini


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