La creatività ha valore ma non pesa E se ne avvantaggia tutta l'economia

19 gennaio 2017 | 18:45
di Marco Di Giovanni
Enogastronomia e ristorazione, poi arte cinema e fotografia, e ancora turismo mercati e politica. Ogni ambito, volgarizzato, un suo “intrallazzo” con l’economia deve avercelo. L’economia che (non) gira, che categorizza una società che, tra materialismo e secolarismo, non ha tempo da spendere nelle idee. Le idee sono astratte, le idee non si toccano, quindi le idee non si pagano. La creatività ha valore nella vita di tutti i giorni ma questo non viene percepito dai più.



Una presentazione un po’ riduttiva, forse, stereotipata, ma se ben ci si riflette, non così estranea. Oggi a tutto viene dato un prezzo, e ciò che più è importante non è tanto ciò che si compra con quella cifra, ma la cifra in sé. Ed ecco, allora, che anche un’idea, quella rivoluzionaria, quella geniale, dev’essere, per così dire, “quantificata”, e l’unico modo in cui si quantifica è scandirne omnia partes dando ad ognuna di queste un corrispettivo in euro. Come se, oltre allo spiccio pagamento di un’idea, s’aggiungesse che, a venir “pagata” è da una parte l’aspettativa che quell’idea porta con sé e dall’altra la sua realizzazione finale. Questi sono i tre criteri, essenziali, per dare il “giusto” valore a un’idea.

Si perdoni la prolissa introduzione, ma questo penso sia il concetto espresso dal pubblicitario Pasquale Diaferia, intervenuto all’inaugurazione di FoodGraphia, mostra dell’arte del cibo a Palazzo del Senato a Milano di cui Italia a Tavola è media partner. Dalle sue parole, ho colto due momenti storici, con uno spacco temporalmente vago, che per semplicità, pongo in un oscillante fascia temporale compresa tra la fine del boom economico e l’inizio della crisi del 2008.

Due momenti, i suoi, che si descrivono nel rapporto tra creativo e dirigente prima e dopo quest’ideale periodo. Prima il creativo s’intratteneva ore ed ore con il dirigente, il primo ascoltava quest’ultimo, ascoltava la sua passione rivolta al percorso creativo, all’interesse per il progetto in sé. Poi il creativo tornava a casa, pensava, e faceva di testa sua, «e alla fine aveva sempre ragione lui». Poi oggi, il post, il secondo momento, quello in cui un creativo si confronta, ultimo anello dell’economia che (non) gira, con il cost controller, intermediario il primo e un manager che fa le veci di un altro manager che rappresenta indirettamente il dirigente di cui sopra. A lui vengono spiegate le idee di fondo, le due o tre pretese che devono orientare la sua idea, e i costi, soprattutto i costi: i costi per la realizzazione dell’idea perchè la creatività presuppone di essere concretizzata altrimenti rimane astrazione senza alcun valore.

Questi costi però non coprono l’arte, questi costi l’affliggono, la svalorizzano, la uccidono. Sono bassi, questi costi, perché i soldi non ci sono più. Ma questi soldi che non ci sono, mancano anche per la svalutazione che, volontariamente o no, l’economia italiana fa nei confronti degli autori (che sono tutti i "creativi", dagli artisti ai fotografi, dai pubblicitari ai giornalisti), «persone che sanno come trasformare la realtà più banale in cose straordinarie e piene di valori». Questi soldi che non ci sono, forse, e parlo ipotizzando, e parlo riportando, translitterate, le parole di un pubblicitario, che forse, e dico forse, un po’ condivido, non ci sono perché il settore “Progetto e cultura”, che contribuisce per il 6% al Pil italiano, potrebbe se non ignorato ma valorizzato, macinare qualcosa di più, raggiungendo magari il non lontano turismo con il suo 11%.


Michele Cogni, Renato Marcialis, Pasquale Diaferia

Sommario discorso che ben si veste del mestiere del fotografo, quale è Renato Marcialis, anche lui intervenuto per l’occasione di cui sopra, che non ha speso troppe parole attorno alla teoria, no. Ha mostrato le sue fotografie, quelle che ha scattato e preparato senza il computer, ma con mani e cervello, con le idee. E che idee, che idea prendere quelle bacchette, quelle semitrasparenti, rigide e colorate che servono per mescolare un cocktail, prenderne una gialla, passarla sopra il fuoco del fornello e poi incastrarla tra l’ampolla e la bruschetta, come fosse olio che scende perpetuo.

Certe idee non hanno un prezzo, e, se proprio - perché la gente deve pur mangiare - gliene si vuole affibbiare uno,  che tenga conto non solo delle aspettative, non solo della realizzazione, ma anche della portata dell’idea, della sua magnificenza, e del suo potenziale di comunicazione, quella comunicazione che intriga il destinatario del messaggio, che lo affascina, che lascia il segno tanto da sopravvivere intatta nel tempo.

Mi scuso ovviamente, se ho diciamo sbilanciato la realtà per giocare un po’ a favore del mio discorso. Nessuno esclude le sfumature, e i casi specifici, le cosiddette “eccezioni che confermano la regola”. I mezzi vogliono giustificare qui il fine, quello di rivolgere lo sguardo a un settore che, per il ben suo e per il ben di tutti, meriterebbe qualche attenzione in più, essendo parte della linfa vitale purtroppo non di questa economia, ma del suo potenziale, del nostro potenziale, di italiani perchè alla fine il dato che ci caratterizza è proprio quello della creatività come dimostrano i successi internazionali nella moda, nel design, nella tecnologia e nella cucina.

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Alberto Lupini


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