La
pandemia e la crisi innescata dalla serrata o limitazione delle attività
Horeca ha riacceso le luci sul tema della
fiscalità d’impresa. Bar e ristoranti si sono ritrovati a prendere in mano argomenti che fino a poco tempo prima erano riservati ai revisori dei conti, ai commercialisti. Ma in poco tempo si sono rivelati la sola luce di
speranza per una sostenibilità economica e produttiva altrimenti compromessa.
Dall'azzeramento Iva al credito di imposta: ecco le proposte Fipe-Fiepet
A ribadirne l’importanza,
nell’incontro congiunto con il ministro allo Sviluppo economico Stefano Patuanelli, sono state
Fipe e
Fiepet che, in un documento unitario, hanno messo nero su bianco
le proposte per traghettare l’intero comparto dei pubblici esercizi verso una possibile ripresa. Dal
credito d’imposta all’azzeramento dell’
Iva, dal miglioramento del meccanismo del cash back (visto all’opera solo nei giorni di Natale) alle esenzioni di quei
costi fissi che incidono sull’impresa; anche quando l’impresa è chiusa dietro a una saracinesca abbassata.
Il peso della sicurezzaDiventati ormai un costo strutturale, gli investimenti in
sicurezza (leggi: sanificazione e dispositivi di protezione individuale) hanno potuto godere di un credito di imposta del 60% per tutto il corso del 2020. E «data l’evidenza del perdurante stato di
emergenza e delle correlate misure di contenimento e diffusione del contagio – si legge nel documento Fipe-Fiepet – occorre estendere il beneficio alle stesse spese sostenute nell’anno 2021». Ma cosa significa in termini di sostenibilità anziedale? «Guardando ai rendiconti e ai
bilanci di bar, tavole calde, osterie e ristoranti abbiamo spese generali in tema di sicurezza, comprensive di messa a norma degli spazi interni, che si aggirano sul 6-7% dei costi totali necessari per far funzionare un’impresa di questo tipo», afferma
Andrea Vitale, avvocato e professore di Economia delle imprese ed elementi di legislazione alimentare all’Università statale di Milano. Insomma, un costo sostenibile finché si hanno superfici gestibili.
Aliquote Iva, il momento della revisionePiù complicato è il discorso sulle aliquote Iva. Le due associazioni datoriali hanno chiesto al ministro di procedere all’
azzeramento dell’imposta sul valore aggiunto per quanto riguarda la
somministrazione (attualmente al 10%). L’obiettivo sarebbe quello di «
stimolare la domanda almeno sulle attività che rimangono consentite a seconda della fascia di appartenenza territoriale». Possibilità che può tradursi in una più digeribile rimodulazione da parte dello Stato; che sui soldi dell’Iva fa conto per la tenuta delle proprie casse.
«Con l’ultimo scostamento di bilancio,
i Ristori V, dovrebbe esserci una quota riservata per questo intervento. Certo, lo stato non può immaginare che diventi una misura
strutturale con il passaggio dei ristoranti dal 22 al 10% di Iva. Basterebbe una semplice
moratoria, uno slittamento in vanti che per l’Horeca rappresenterebbe comunque una boccata d’ossigeno a fronte di attività che, rispetto ad altre, sono state ferme», afferma Vitale. Il riferimento, manco a dirlo, è al
delivery e alla
grande distribuzione che, in un momento di blocco dei consumi fuori casa, sono riusciti a sfruttare una fiscalità che prevede un aliquota del 10% per il primo e del 4% per i beni di prima necessità. Ma su questo tema, la soluzione potrebbe risiedere a Bruxelles piuttosto che a Roma.
A tutto canoneAltro tema rilevante è quello dei
canoni. In particolare, Fipe e Fiepet fanno riferimento all’esenzione per tutto il 2021 dal pagamento del
canone unico, ossia: il canone patrimoniale di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria che riunisce in una sola forma di prelievo le entrate relative all’occupazione di aree pubbliche e alla diffusione di messaggi pubblicitari. Attualmente, l’esonero si estende fino a marzo 2021, ma l’idea è quella di allungarlo a tutto l’anno in corso. Stessa cosa dicasi per la
Tari, la tassa dei rifiuti una cui parte fissa copre i costi del servizio e per i comuni sembra inderogabile. «Questi sono costi fissi che, come le
utenze di luce e gas, finiscono con il pesare in maniera molto pesante, anche fino al 15%, sul fatturato di un ristorante», spiega Vitale.
Diversa, invece, la questione dei canoni di
affitto. L’argomento, che ha occupato le prime fasi dell’emergenza, sembrava risolto con le rinegozziazioni fra proprietario e inquilino di uno stabile. Ma il perdurare dell’emergenza lo ha fatto riemergere. Soprattutto all’interno dei
centri commerciali che, con la ristorazione, avevano inaugurato un modello di business innovativo in cui lo shopping center non era più solo una destinazione d’acquisto ma un vero e proprio riferimento per l’intero
tempo libero di individui e famiglie. «Su questo punto lo Stato è arrivato tardi e male», commenta
Luca Lucaroni, direttore finanziario di Eurocommercial Properties Italia e vicepresidente vicario del Cncc (Consiglio nazionale dei centri commerciali).
Sebbene il credito di imposta proposto dal Governo sia stato uno strumento potente per affrontare l’emergenza, ha presto rivelato le proprie storture: «Se alle locazioni commerciali è stato concesso il 60% del credito d’imposta, per gli
affitti di rami d’azienda si è fermati al 30%. Inoltre, nella prima fase dei ristori era stato introdotto il limite dei 5 milioni di fatturato per accedere al credito d’imposta. Una cifra molto bassa se consideriamo i centri commerciali». Le conseguenze? «Siamo dovuti intervenire come
proprietari con abbuoni dell’affitto fino a un mese, un mese e mezzo. Questo ha permesso di mantenere una certa
coesione arrivando al 90% di accordi positivi. Purtroppo, la seconda fase ha messo di nuovo tutto in discussione e ora ci aspettiamo una risposta nel decreto Ristori», conclude Lucaroni.
Sos liquiditàDetto dei vari costi, è lecito chiedersi se al netto degli aiuti dello Stato le aziende
abbiano la liquidità sufficiente per affrontare un 2021 incerto. «A marzo e aprile c’è stata l’ondata dei finanziamenti
Sace. Una misura molto efficace a cui è seguita una moratoria per i pagamenti fino a fine giugno. Tuttavia, anche vista la situazione attuale del nostro Paese, c’è il rischio che questi provvedimenti non vengano rinnovati. Da qui a sei mesi, quindi, il rischio è che le legittime richieste delle banche peggiorino
la tenuta creditizia degli operatori», ammette Lucaroni.