Altro che novità che avrebbe aperto nuove prospettive ai pubblici esercizi garantendo più servizi ai consumatori. Da rimedio e salvagente per resistere durante la pandemia, il delivery sta diventando un vero cappio al collo per molti pubblici esercizi che lo hanno adottato, nonché un servizio che sempre meno italiani si possono permettere. E questo per il costo ormai spropositato di un "trasporto" che è diventato una vera e propria tassa sul lusso.
Per chi si affida alle varie piattaforme di consegna di piatti pronti a domicilio (che fanno per lo più capo a società multinazionali) il rischio è infatti quello di pagare dal 30% al 50% più di quello che sarebbe costato consumare la pizza o il menu prescelto al ristorante. E questo perché gli hotel e i ristoranti italiani sono letteralmente salassati dalle commissioni che devono pagare alle app di prenotazione e di delivery.
Il delivery è ormai una tassa sul lusso che colpisce ristoranti e consumatori
E questo perché il delivery, come detto, è oggi sinonimo di tassa di lusso, per i consumatori e per i 19mila pubblici esercizi del settore della ristorazione (su 220mila circa complessivi) che usufruiscono di questi servizi. Parliamo di una costo (commessione) che si aggirerebbe intorno al 18,2%. Per un ristoratore su tre, però, come rivela l’indagine svolta dall’Inapp (Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche) che abbiamo presentato nei giorni scorsi, il costo di raccolta e consegna a domicilio via app supera addirittura la soglia del 20%. E secondo la Fipe si toccherebbero in non pochi casi anche i 30-35% di commissione, un costo che i gestori non possono non scaricare poi sul cliente.
Di fatto si tratta di un servizio che, causa i costi elevatissimi, ormai in pochi possono permettersi. E anche fra i ristoranti solo le grandi realtà multinazionali del settore e chi ha una certa notorietà locale può sostenere. Ma tutto questo è solo la punta di un iceberg (profondissimo) dei problemi che si nascondono dietro alle piattaforme.
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Food delivery, il boom durante il lockdown per il Covid. +20% nel 2022
A questo punto è necessario fare un passo indietro e capire da dove nasce questo boom delle app. Bisogna tornare al lockdown. Infatti, tra la primavera e l’estate del 2020 e nell’inverno dello stesso anno e di inizio 2021, ricordando anche la protesta di alcuni ristoratori che chiedevano regole uguali per tutti all'ex governo Conte, le varie piattaforme online come Deliveroo, Just Eat, Glovo e Uber Eats sono stati il canale di vendita primario per moltissimi bar, fast food, ristoranti, osterie e pizzerie che erano chiuse. Ma non è tutto. Sì, perché il business del food delivery al termine della pandemia non è calato, anzi. Nel 2022 il giro d’affari è stato circa di 1.8 miliardi di euro, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente. Ed è lampante, poi, il dato relativo al numero di locali che hanno stretto un accordo contrattuale con le app di food delivery: l’Inapp, infatti, ha verificato che il 12,8% di questi ha in essere una partnership. La percentuale può sembrare bassa, ma in realtà è alta se si considera che la presenza e l'utilizzo delle piattaforme si concentra principalmente nelle grandi città (e nei capoluoghi di provincia), e non nei piccoli paesi. E fra gli utilizzatori ci sono praticamente tutte le aziende multinazionali di fast food.
Food delivery, per Fadda (Inap) occorre «riequilibrare i rapporti tra piattaforme e imprese»
«Il 45% delle imprese della ristorazione che ha iniziato ad utilizzare le piattaforme digitali per l’asporto durante la pandemia si è aperto uno spazio di mercato altrimenti sconosciuto, che ha consentito anche lo svolgimento di una funzione sociale. Tuttavia - ha spiegato Sebastiano Fadda, presidente di Inapp -, sarebbe opportuno riequilibrare i rapporti tra piattaforme e imprese al fine di non imporre oneri eccessivi a queste e ai consumatori». Infatti, questi accordi praticamente “unilaterali” e le "tasse di lusso" nei confronti dei locali, nel 2021, hanno fatto lievitare, notevolmente, il fatturato delle tre piattaforme leader di food delivery a circa 358 milioni di euro (+40% sul 2021). E chissà a quanto sarà ammontato nel 2022, visto che il mercato italiano, in questo settore, è cresciuto ulteriormente di venti punti percentuale. Con i prezzi che salgono sempre di più.
Food delivery, c'è stato profitto per i ristoranti?
E per i ristoranti, c’è stato profitto? La risposta è sì (anche se solo del 2%), ma non per tutti e - come dicevamo - con parecchie problematiche:
- C'è quella legata appunto al costo delle commissioni da pagare (che si aggirano come detto a partire dal 20%);
- c'è quella legata alla gestione degli incassi: er due ristoranti su tre gli incassi vengono liquidati dopo diverso tempo dalle piattaforme: il “potere” è dunque nelle mani delle stesse nel 92% dei casi;
- e quella relativa alle informazioni sui propri clienti, visto che solo le app (per un ristorante su quattro) hanno il controllo sui dati degli stessi , tanto che il 32% dei locali ha perso la fiducia del consumatore a causa di disservizi causati dalle applicazioni.
E poi c'è un altro grande interrogativo su queste "tasse di lusso". Il costo da pagare del delivery, infatti, è calcolato in percentuale sul valore del cibo acquistato: più costa il menu, più si paga di consegna. Ed il meccanismo per "combattere" questa regola (o regole) senza senso, come vi dicevamo già nel giugno 2020, deve innescarsi dal basso, dalla coalizione tra ristoratori che avevano individuato nella delivery una “business-unit” portatrice di soldini e non già l'attuale calice amaro da sorbire nel tempo.
Food delivery, Cursano (Fipe): «È uno strumento speculativo, e non di servizio»
«Quello del food delivery è un sistema che senza dubbio risponde alle aspettative e alle necessità del mercato, con il Covid che ha acceso i riflettori su questa nuova opportunità. Da ristoratore e imprenditore credo che, però, l’esperienza del cibo continui a rimanere al ristorante» ci ha raccontato Aldo Mario Cursano, vicepresidente di Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi. Inoltre, la «consegna è un valore che non viene riconosciuto dal mercato. Il servizio deve essere pagato e riconosciuto anche dal consumatore. Bisogna farlo comprendere. La responsabilità è delle piattaforme e di chi usufruisce di questo servizio: servono dignità, spazi e servizi per i rider. Le città dovrebbero creare degli spazi adibiti a questi fattorini, che devono andare in bagno e lavarsi le mani… e non lasciarli in mezzo alla strada».
Infine, un commento sulle commissioni, che per Cursano non si assestano al 20%, ma che sono nettamente «più alte, poiché si parla del 30-35%. È uno strumento puramente speculativo, e non di servizio. Il vero problema - come abbiamo scritto - è che le piccolissime aziende sono sotto scacco, mentre le grandi imprese multinazionali sono quelle che stringono operazioni economiche importanti».
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Alberto Lupini
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