Formazione, incentivi, cultura del lavoro: come sconfiggere la carenza di personale
Ripercorriamo tutte le tappe della nostra inchiesta che ha provato ad andare alla radice della mancanza di lavoratori nella ristorazione e nell'accoglienza dando voce ai professionisti del settore
«A me nessuno ha mai regalato nulla. Mi sono spaccato la schiena, io, per questo lavoro che è fatto di sacrifici e abnegazione. I giovani preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato». Parole dure, quelle pronunciate da Alessandro Borghese, cuoco e personaggio televisivo, non condivise da tutti, ma che hanno avuto il merito di riaccendere il dibattito su un tema mai sopito: la carenza di personale, ormai cronica, nella ristorazione e nell’accoglienza.
Una crisi certificata persino da Massimo Garavaglia, ministro del Turismo, che ha parlato della mancanza di 250mila lavoratori, tra alberghi, ristoranti e stabilimenti balneari. Una crisi che non fa altro che certificare una tendenza emersa ormai da tempo e che la pandemia ha portato a compimento. Il Covid e le conseguenti chiusure forzate hanno portato molti professionisti del settore a scegliere altre strade e ora, che sembra finalmente tornata la tanto attesa normalità, quelle figure non hanno fatto ritorno, lasciando di fatto un vuoto non colmato da nuovi ingressi.
Come sempre accade quando si parla di temi complessi come questo, le colpe, se di colpe si può parlare, sono diverse e il risultato finale non è che la somma di numerosi fattori. C’è, come detto, la pandemia, che ha fatto cambiare abitudini e prospettive dei lavoratori, portando a optare per orari e professioni più comode e meno “sacrificanti” di ristorazione e accoglienza. C’è, dal punto di vista dei sindacati, una criticità legata ai contratti, definiti “inaccettabili”. C’è poi, dal punto di vista delle aziende, un costo del lavoro insostenibile, che non permette di garantire stipendi adeguati al carico di lavoro richiesto. C’è per qualcuno lo “spettro” del reddito di cittadinanza, che in molti sceglierebbero come alternativa al lavoro. E c’è anche una questione culturale, di narrazione, che vede il lavoro nella ristorazione o nell’accoglienza come una scelta di ripiego o temporanea e non un mestiere professionalizzante.
Insomma, la carne al fuoco è parecchia e la strada per uscirne complessa. Noi di Italia a Tavola abbiamo provato a capirne di più dando voce a un’ampia platea di professionisti: albergatori, ristoratori, baristi, sommelier, pizzaioli, direttori d’albergo, presidi, pasticcieri, ma anche sindacati e lavoratori che, dopo anni nella ristorazione e nell’accoglienza, hanno deciso di intraprendere altre strade.
Ripercorriamo la nostra inchiesta attraverso le loro dichiarazioni.
Valorizzare il ruolo di chi è in sala perché rappresenta un valore aggiunto per il locale
Marco Reitano, sommelier del ristorante La Pergola dell'Hotel Rome Cavalieri di Roma e presidente di Noi di Sala: «Spesso nel nostro settore si finisce anche per lavorare 12 ore al giorno, ma la paga resta purtroppo sempre la stessa. C'è poi anche chi ti paga in nero e quindi è ovvio che poi il personale scappa se non si sente tutelato. Bisogna puntare a valorizzare le competenze e le professionalità dei nostri ragazzi. Chi è in sala ha un ruolo importante, perché di fatto è un venditore. Può davvero portare valore aggiunto al business di un ristorante».
Nuove forme di comunicazione con gli studenti
Gabriele Bianchi miglior cameriere d'Italia under 30 nel 2019, sommelier, influencer, tra i 5 nomi più influenti del food italiano: «Non mi sarei potuto permettere alcuna esperienza lavorativa senza riscuotere uno stipendio, perché non avrei avuto di che arrivare a fine mese. Non dimentichiamo lo stile di vita massacrante cui camerieri e personale di cucina sono costretti agli esordi: mangiare velocemente, riposare una mezz'ora in luoghi non adeguati, magari dormire in alloggi fatiscenti in città lontane da casa. Per far tornare a brillare questo settore bisogna trovare un nuovo metodo di comunicazione per parlare con i giovani, formarli adeguatamente e trovare soluzione concrete per garantire loto un benessere di vita personale e professionale».
Molti giovani lasciano la professione
Valerio Beltrami, presidente di Amira Italia, l'associazione che raggruppa i maître di ristoranti e alberghi: «I ragazzi vanno valorizzati e stimolati. Quando sono a scuola hanno bisogno di fare più lezioni pratiche, stando molto più tempo fuori dalle aule. E serve anche far diventare le mense scolastiche dei veri e propri ristoranti. Gli istituti professionali regionali da questo punto di vista, rispetto alle scuole alberghiere, distribuiscono equamente il carico di teoria da quello della pratica. Inoltre dobbiamo essere noi adulti a trasmettere loro la passione per questo mestiere. Gli alunni devono poter stare a fianco dei professionisti per anche imparare i segreti del mestiere».
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Troppi costi a carico degli esercenti
Alessandro D'Andrea, presidente di Ada l'Associazione direttori d'albergo: «Il settore ha un contratto complesso e questa complessità ha come obiettivo la tutela del lavoratore. Troppo spesso però non viene rispettato. Non è possibile chiedere qualunque cosa a qualsiasi condizione. Così si finisce per far perdere motivazione e passione. Il lavoratore, magari giovane, si sente sfruttato e considerato come un mulo e non come un professionista. Poi a fine mese vede la retribuzione e si chiede: chi me lo fa fare? Credo però anche che un ragazzo debba accettare una retribuzione minore rispetto a una persona che ha meno esperienza. Per uscire dalla crisi serve ridurre il costo del lavoro e condizioni di lavoro soddisfacenti e motivanti».
Dare incentivi a chi assume
Antonello Maietta, presidente dell'Associazione italiana sommelier: «La crisi del personale che coinvolge il mondo della ristorazione riguarda marginamente i sommelier. Anzitutto non ci si può improvvisare. Spesso si arriva a questa professione dopo aver compiuto un percorso lavorativo che può partire dalla scuola alberghiera e passare dal servizio di sala. È lavoro specializzato e maggiormente retribuito rispetto agli altri impieghi. Tra l'altro, recentemente sta crescendo fra i giovani l'interesse per questa professione».
C'è un problema di valori
Francesco Guidugli, presidente di Solidus, forum permanente del settore che raccoglie quasi 60mila professionisti alberghieri: «Ci sono diversi fattori. Anzitutto dobbiamo cercare il modo di far sì che i salari possono avvicinarsi a un livello considerabile adeguato. Per farlo, serve un intervento della politica. Se la metà di ciò che paga un'azienda va in tasse, ciò che resta ai dipendenti è molto poco. Serve alleggerire i costi a carico delle imprese. Un altro aspetto sono le condizioni di lavoro. Ormai il sabato e la domenica in tanti non vogliono lavorare. Dare una percentuale in più a chi lavora nei fine settimana o la notte. Noi, che abbiamo fatto sacrifici, non lo vediamo come un modo giusto, ma non ci sono alternative».
Stiamo lavorando con il Governo a una soluzione
Lino Stoppani, presidente nazionale di Fipe: «Per invertire la rotta lo Stato deve anzitutto introdurre delle politiche attive e non soltanto passive. Non bastano gli ammortizzatori sociali, ma investimenti nella riqualificazione delle professioni e che garantiscano anche a chi non ha un impiego di poter rientrare nel mondo del lavoro. il costo del lavoro andrebbe abbassato, applicando un diverso regime fiscale. Quantomeno bisognerebbe garantire delle economie di contribuzione, anche solo per un periodo determinato, per chi decide di assumere il personale».
Si diano ai cuochi tre giorni liberi la settimana
Rocco Pozzulo, presidente della Federazione italiana cuochi: «L'emergenza pandemica ci ha fatto ricordare qualcosa che era stato dimenticato: la vera ricchezza è la gestione del tempo, e i nostri giovani sono stati i primi a comprenderla. Per questo stanno abbandonando in massa il settore della ristorazione. Ma possiamo ancora invertire la rotta. Mi chiedo che senso abbia guadagnare dei soldi se poi non si ha il tempo di spenderli. Nel nostro settore è quindi importante dare la possibilità di dare ai cuochi due, ma anche tre turni di riposo. E se lo Stato riducesse il costo del lavoro la proposta potrebbe concretizzarsi».
C'è sfruttamento, ma manca spirito di sacrificio
Bernardo Ferro, presidente di Abi professional, l’associazione dei bartender italiani: «Nel settore dell’ospitalità e della ristorazione oggi continua a esserci una richiesta di lavoro pazzesca, controbilanciata da un’offerta molto bassa. Le motivazioni sono tante e in particolare coinvolgono i giovani. Da una parte i salari sono drasticamente diminuiti, mentre gli orari di lavoro sono aumentati e dall’altra i giovani che si affacciano per la prima volta alla professione dopo le scuole alberghiere pensano di essere già arrivati. Ma in giro c'è anche troppo protagonismo tra gli addetti ai lavori. Basta mettere al centro dell’attenzione i cuochi, ma anche il personale di sala e il bartender. In quella posizione ci deve stare soltanto il cliente».
Bisogna raccontare la cultura del lavoro
Gabriele Cartasegna, direttore del Capac, Fondazione che realizza servizi formativi nel settore del terziario: «Il problema è diventato strutturale e non di facile soluzione. Perdere professionisti è stato rapido, riportarli alla ristorazione non sarà facile. Serve un'attività su più livelli che non si fa dalla mattina alla sera. Oggi il servizio è il segmento della ristorazione più in difficoltà con il personale e la cultura si fa anche con la comunicazione. Con Masterchef, per esempio, si era assistito a un boom di giovani che volevano entrare in cucina. La cultura della ristorazione si fa anche con la comunicazione, raccontando al meglio ciò che il settore può offrirti. Non ci sono camerieri. Ci vorrebbe un Masterchef per loro».
Sempre meno persone vogliono lavorare il sabato
Antonio Pace, presidente dell'Associazione verace pizza napoletana: «Ai nostri corsi vengono tanti stranieri e anche qualche italiano. I primi imparano il mestiere del pizzaiolo per trasformarlo in professione. Però poi, una volta formati, se ne tornano nel Paese d'origine per avviare la propria attività. Gli italiani, invece, si iscrivono ormai quasi solo per alimentare la propria passione. E alla fine però questa rimane troppo spesso un hobby che praticano tra le mura di casa, invece che tra le pareti di una pizzeria. D'altronde è sempre più difficile trovare qualcuno disposto a lavorare vedendo gli altri che vengono in pizzeria o al ristorante per divertirsi».
Una vita di sacrifici per uno stipendio normale
Ezio Indiani, general manager dell'Hotel Principe di Savoia di Milano: «Durante il periodo della pandemia abbiamo retribuito al 100% tutto il nostro personale, integrando la cassa integrazione. Abbiamo avviato molti programmi di formazione e attività sociali, creando un gruppo di persone fidelizzate. Il risultato? Abbiamo la stessa brigata che avevamo prima del Covid. Non abbiamo perso personale e non siamo quindi andati in difficoltà come accaduto altrove Dobbiamo essere più vicini al personale, creare una squadra ed evitare divisioni. È fondamentale il coinvolgimento di tutti i dipendenti e la valorizzazione delle loro professionalità. Uno sviluppo su tutti i livelli fa sì che il personale resti».
A scuola serve il Maestro Pasticcere
Angelo Musolino, presidente di Conpait, la Confederazione pasticceri italiani: «I giovani lasciano il settore della ristorazione e in particolare quello della pasticceria perché non sono adeguatamente formati. Le scuole alberghiere sono da rifondare. Bisogna istituire per legge la figura del maestro pasticciere, di modo che nelle scuole possano andare a insegnare docenti qualificati e che abbiano i necessari anni di esperienza alle spalle. Altrimenti gli alunni continueranno a rimanere "parcheggiati" all'interno di istituti decisamente poco formativi».
La pandemia ha avuto un ruolo centrale
Sal De Riso, presidente di Ampi, Accademia maestri pasticceri italiani: «In passato qualcuno ha passato il limite, con orari esagerati. Ora la gente si è stufata e con la pandemia ha cercato altro da fare. Qualcuno mi chiede, finita la stagione, di fermarsi perché preferisce prendere la disoccupazione. Altri addirittura hanno scelto di rimanere proprio a casa, prendendo il reddito di cittadinanza. Ci sono, solo restando in Costiera, moltissimi posti in cui poter fare la stagione. Tra 1.200/1.300 euro e il reddito, scelgono il secondo. Poi magari vanno a fare qualche lavoretto extra in nero...».
Nei villaggi mancano anche gli animatori
Daniele Pompili, general manager divisione Villaggi di Veraclub: «Anche all'estero e in particolare in Spagna e in Grecia si assiste alla fuga di stagionali da tutte le tipologie di impiego. Nelle strutture mancano cuochi, camerieri, personale di sala e anche gli animatori. Abbiamo quindi deciso di "puntare" sui nostri ragazzi. Ovvero, organizzare una serie di corsi di formazione specializzati dedicati alla parte alberghiera del nostro stettore al fine di far crescere, lavorativamente parlando, personale qualificato».
Manca personale anche alle discoteche
Maurizio Pasca, presidente nazionale di Silb-Fipe, l'Associazione italiana imprese di intrattenimento, titolare del famoso locale di ristorazione e intrattenimento “Le Quattro Colonne”, a Gallipoli, nel Salento: «Da una parte l'introduzione del Reddito di cittadinanza e dall'altra le nostre famiglie, da sempre molto premurose nei confronti dei nostri figli, hanno finito per creare un fenomeno di disaffezione o di disinteresse nei confronti del lavoro, molto forte tra i nostri giovani. Me ne accorgo tutti i giorni quando metto gli annunci a cui nessuno risponde. Quest'anno per trovare personale stagionale dovrò rivolgermi alle agenzie interinali straniere».
Più sicurezze e tutela per i giovani
Gabriella Savoldi, dirigente scolastico della Fondazione Isb, centro di formazione professionale per alberghieri di Torre Boldone (Bg): «I nostri giovani hanno vissuto anni molto difficili a causa dell'emergenza pandemica e al conseguente lockdown dove si è persa molta socialità. Molti si sono lasciati andare. Purtroppo ne abbiamo visti tanti demotivati e privati della necessaria passione che ci vuole per lavorare nel settore dell'accoglienza e della ristorazione. Ora bisogna rimotivarli. E probabilmente rivedere anche i contratti di lavoro dando ai nuovi assunti più sicurezze e tutele sarebbe sicuramente un buon incentivo».
Tutta colpa del reddito di cittadinanza?
Per molti imprenditori che operano nel settore dell’accoglienza l’unico motivo per cui da un anno a questa parte stanno facendo sempre più fatica a trovare lavoratori, e in particolare stagionali, è l’aver introdotto il reddito di cittadinanza. Il mondo del lavoro come lo si concepiva prima dell’emergenza pande- mica ormai non esiste più. Durante i mesi di lockdown in molti, specialmente i giovani, ma non solo, hanno deciso di lasciare la ristorazione e l’accoglienza per diversi motivi. Anzitutto per un lavoro più stabile, dove poter lavorare con continuità, ma non solo. Si sa che si lavora più del dovuto e molti lamentano anche il fatto che i contratti di lavoro non vengono rispettati. Nella Milazzo, segretaria generale della Filcams Cgil della Sardegna, ha spiegato che non c’entra nulla la polemica legata al reddito di cittadinanza: «I giovani non hanno nemmeno i requisiti per riceverlo. Sono proposte di impiego o contratti inaccettabili che tengono alla larga i lavoratori che preferiscono quindi altre occupazioni. Stipendi da 1.400 euro mensili, quattordicesima e Tfr compresi, a fronte di 12 ore di lavoro al giorno senza straordinari, ferie e permessi o, peggio ancora, contratti part time da 25 ore settimanali che in realtà diventano poi full time, ma con la stessa retribuzione; per forza poi il lavoratore fugge».
Baristi in difficoltà
Noemi Congiu ha 31 anni e da quando ne aveva 20 ha lavorato nel settore della ristorazione. Oggi ha abbandonato la professione che fin da ragazza sognava di intraprendere, il capo barman. La pandemia l'ha spinta verso il settore del commercio: «Faccio la commessa in un supermercato. Non era quello che avrei voluto fare nella vita, ma almeno ho un impiego certo, lavoro in base a quanto è previsto dal contratto, ho le ferie, non lavoro più sette giorni su sette e posso pianificare al meglio il mio futuro».
Antonio Moi è un barista che dopo 28 anni nel settore con la pandemia è finito dapprima in cassa integrazione e poi è stato licenziato. «La scelta era la riassunzione con un orario di lavoro ridotto, o di rimanere a casa. Ho scelto la seconda opzione piuttosto che lavorare per sole 800 euro al mese. Avrei infatti sgobbato come prima, ma con una retribuzione inferiore. Ora continuo a ricevere proposte di lavoro, ma sono irrispettose. Non considerano l'esperienza pregressa o non vogliono rispettare il contratto di lavoro. Ti chiedono di lavorare 50 ore la settimana, domenica compresa, con una retribuzione di 1.200 euro netti al mese. Chi in altre professioni accetterebbe mai un impiego del genere?».
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Alberto Lupini