Food influencer ovvero “recensioni” a pagamento. Perché è meglio non fidarsi

Qualche giorno fa a Napoli un'influencer ha cancellato dal proprio profilo i contenuti social dedicati a un locale dopo aver pagato il conto. «Non faccio pubblicità gratis» ha detto, confessando però come la pizza fosse effettivamente buona. Ma come funziona il mondo delle recensioni o dei contenuti a pagamento? E qual è la differenza tra influencer e giornalista?

20 settembre 2023 | 15:14
di Alessandro Creta

Quando storie e post social diventano "moneta corrente" e merce di scambio. Ci risiamo, come ormai quasi puntualmente accade rieccoci di fronte a una caso in cui gli influencer (veri, presunti o aspiranti tali) pretendano, o comunque si aspettino in qualsiasi circostanza, di mangiare gratis in cambio di visibilità portata al locale attraverso i propri contenuti social dedicati.

Corsi e ricorsi storici, verrebbe da dire, considerando come periodicamente esca l'ennesimo caso simile capace sempre di generare discussione e dibattito come se fosse sempre la prima volta. Era successo già ad inizio anno, quando lo chef romano Lele Usai "denunciò" via social la richiesta di un gruppo di blogger di mangiare presso il suo ristorante (stellato) di Fiumicino in cambio di un una serie di contenuti social dedicati. Lo stesso Gennaro Esposito ha confermato una tendenza sempre più diffusa, ed è cronaca recente quanto accaduto fattivamente a Napoli, presso la nota pizzeria di Errico Porzio, dove tale Barbara Gambatesa (3.6 milioni di followers su Tiktok, oltre 500.000 su Instagram) si è ritrovata a dover pagare il conto come tutti i clienti dopo esser stata invitata (a sua detta, mentre i gestori hanno smentito la cosa) al locale.

E tutte le stories con toni entusiasti postate sui suoi profili nel corso del pranzo sono magicamente sparite nel momento in cui è stato battuto lo scontrino. Come per dire: mi fai pagare? Allora non dico a tutti quelli che mi seguono che da te si mangia bene. «Non faccio pubblicità gratis», ha detto, anche se effettivamente la pizza è davvero buona, come ha specificato a posteriori la tiktoker. Paradosso o meno, c'è da ragionare. 

Food influencer, quando i contenuti li paga il locale 

Un format ormai classico, quello del post social in cambio di soldi o una cena gratis. «Tu non mi fai pagare» o ancora «Tu mi paghi e io dico ai miei followers quanto sia buono il tuo prodotto, quanto si mangi bene nel tuo locale». E poco importa se ciò corrisponde o meno alla realtà: è a tutti gli effetti una forma di pubblicità figlia dei tempi correnti. Se prima si compravano spazi promozionali in tv, sui cartelloni o sul giornale, oggi si acquistano i "servizi" di personaggi in grado di raccogliere nei loro profili un gran numero di seguaci (non sempre reali, spesso bot o acquistati attraverso precise campagne), nella speranza che quell'investimento si converta in clientela. Non recensione quindi, bensì una sponsorizzazione a tutti gli effetti, considerando come si tratti di giudizi fin troppo spesso figli non di una critica consapevole e genuina, ma prettamente di uno scambio merce con il ristoratore. «Tu mi paghi e io ti sponsorizzo il locale», per l'appunto, oppure «Tu mi fai mangiare gratis e io ti creo contenuti dedicati». Se poi si mangi effettivamente bene, quello assume un aspetto secondario.

 

È illegale? Assolutamente no, è la legge del mercato al tempo dei social. Al tempo di personaggi che, a seconda di dove arrivino i soldi, si ergono oggi a esperti di cibo, domani di macchine, dopodomani di viaggi e così via. È una formula attendibile? Ripetiamo la risposta di prima: come poter credere a un giudizio figlio esclusivamente (o quasi) di una fattura?

Food influencer: 250 euro per promuoversi su una pagina food di Roma

Del tema se ne parlò anche qualche mese fa, quando i colleghi di La Repubblica resero noto un vero e proprio tariffario dei prezzi stabiliti da influencer o agenzie di comunicazione con personaggi social nella loro scuderia. Un tariffario che presentava i differenti costi a seconda del servizio richiesto dal ristoratore o dallo chef di turno: un tot di € per una serie di storie Instagram, un tot di € per un post, un tot di € per reel o tiktok. Il tutto tarato sul numero di follower di chi sarebbe andato a visitare il locale per il quale si richiedeva il servizio. 

Un'agenzia di comunicazione di Roma la scorsa primavera mi rivelò come per finire su una nota pagina a tema food della Capitale ci volessero 250€, chiedendomi poi di poter dedicare un contenuto a uno dei ristoranti che seguiva. Confondendo il ruolo di scrive, quello di giornalista, da quello di influencer.

E proprio qui è particolarmente intrecciato il nodo della situazione, nella capacità di poter distinguere il food influencer dal giornalista gastronomico, figure fin troppo spesso confuse i cui compiti, apparentemente simili (visitare un ristorante e parlarne) sono invece decisamente differenti. E da un punto di vista etico e deontologico, e da un punto di vista prettamente professionale. Al giorno d'oggi saper distinguere un contenuto "genuino" e sincero da uno invece figlio di una fattura, per i non addetti al settore, può risultare complicato. Fare confusione, insomma, è più semplice di quanto non si creda, anche se va detto come nei post "comprati" viene generalmente inserito l'hashtag #ad (advertising), proprio per avvisare come quel contenuto sia, di fatto, pubblicità. Un dettaglio a cui fare caso, insomma.

Food influencer e giornalisti gastronomici, due ruoli spesso confusi

Fatto sta, sempre più influencer si spacciano per esperti di cibo (per carità, qualcuno lo sarà pure), e sempre più influencer che si spacciano per esperti di cibo raccolgono credito su credito da parte del pubblico. Impossibile dopotutto il contrario, di fronte specialmente a una categoria (quella dei giornalisti) che in teoria dovrebbe essere sinonimo di attendibilità e sincerità, ma nei fatti pare più spaccata che mai (la querelle relativa alle recensioni negative/positive della scorsa estate ne è recente testimonianza). Quindi se nemmeno i coloro che dovrebbero essere i professionisti della comunicazione di settore trovano un punto comune, ecco che questo viene individuato dagli influencer, con il denaro che quasi per magia mette tutti d'accordo coloro che (per carità, legittimamente) creano contenuti solamente in cambio del bonifico. Tutti contenti, tutti felici.

La vera vittima di tutto ciò? Non tanto i ristoranti che pagano recensioni entusiaste dall'influencer di turno (ripetiamo, si tratta di una legittima forma di pubblicità), quanto il pubblico, il lettore, l'utente, che quando consapevole di ciò si ritrova a dover attuare una scrematura selezionando figure attendibili alle quali dare credito e fiducia. Va detto, nemmeno i giornalisti (i quali, rispetto agl influencer, hanno alle spalle una formazione specifica, spesso lunga e faticosa) sono così puri e casti come qualcuno potrebbe credere. Può capitare che un giudizio venga più o meno condizionato da un conto pagato o meno, da una bottiglia di vino offerta, da una portata in più servita al tavolo, da uno sconto finale o dal rapporto di amicizia con lo chef. Tutti fattori che, sulla carta, non dovrebbero influenzare le recensioni, ma che purtroppo a volte condizionano. Come se una cena mediocre diventasse una cena memorabile solamente per qualche servizio extra offerto dalla casa. 

Noi, dopotutto, rimaniamo dell'idea che il giornalista possa essere un "suggeritore" di locali e di prodotti, valutati e consigliati secondo la propria soggettività. Ma alla fin fine, poi, ognuno è il miglior critico per sé stesso. 

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Alberto Lupini


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