Chi è più attento e usa i social con grande frequenza l’avrà già notato: il mondo degli influencer sta - seppur lentamente - mutando. Nelle ultime settimane l’aria è infatti iniziata a cambiare con l’avvento del trend del "deinfluencing": quasi 300 milioni di visualizzazioni per l’hashtag su Tik Tok, dove si sta diffondendo la tendenza di raccontare attraverso dei video anche dei prodotti che non li hanno convinti, facendo quindi recensioni negative. Una vera e propria rivoluzione che, se verrà realmente compiuta, potrebbe portare a una grande svolta per il mondo dei social. Quello stesso mondo dei social che negli ultimi anni - è proprio il caso di dirlo - aveva proposto praticamente solo narrazioni poco autentiche caratterizzate, sullo sfondo, da marchette più o meno comprensibili anche a “occhio nudo”.
Il cambiamento arriva dal mondo del beauty
"Deinfluencing" appunto, perché connota il fenomeno opposto di quello che fanno gli influencer, ovvero suggerire ai propri follower di acquistare qualcosa che loro consigliano (e per cui spesso sono retribuiti). La controtendenza arriva dagli Stati Uniti, dove numerose creator hanno iniziato a usare l'hashtag #deinfluencergang. Tra chi recensisce negativamente prodotti del mondo del beauty e dello skincare c’è chi suggerisce delle alternative più economiche e magari più efficaci. La prima ad utilizzare il termine nel 2020 è stata proprio un’influencer, Maddie Wells, ex dipendente di Sephora, che, parlando dei prodotti più restituiti dalle clienti in negozio, e facendo recensioni su articoli di make-up, ha iniziato a pensare al "deinfluencing", postando video da oltre 2 milioni di views. Dopo di lei, in molte l'hanno imitata. Non solo influencer infatti cavalcano la tendenza: ci sono anche molti semplici utenti, quindi consumatori, che in qualità di clienti raccontano attraverso video perché non hanno apprezzato un determinato prodotto.
Obiettivo stimolare la riflessione critica
Ma chi sono, di preciso, questi deinfluencing? Sono persone dotate di profili social con più o meno seguito che stimolano alla riflessione, cercano di mitigare l’acquisto d’impulso e invitano a non inciampare nelle trappole del marketing della rete. Paladini del consumo critico, evidenziatori di stili di vita alternativi, instillatori di dubbi. L’altra campana, insomma, in un mondo digitale dove i social sono diventati un tassello imprescindibile dell’e-commerce. Una voce fuori dal coro, quella che invita a non essere “solo” consumatori, ma persone consapevoli, in grado di maturare un proprio pensiero e slegarsi dalla convinzione dilagante del “compro dunque sono”. In questo caso, il suggerimento preferito dai deinfluencer è “posso anche non comprare nulla”, consci e convinti che la differenza si possa fare senza mettere mano al portafoglio.
In principio erano gli haul
In principio erano gli haul, ovvero quei simpatici video, diffusi tramite la piattaforma di YouTube, nei quali le persone si divertivano a mostrare i loro acquisti. Un po’ come quando, dopo un giro di shopping, si tornava a casa svuotando il contenuto delle buste per farlo vedere a mamme/sorelle/amiche, così si fa davanti ad una telecamera, parlando con i futuri spettatori per informarli del bottino dell’ultimo giro in centro. Un esilarante momento d’intrattenimento; senza dubbio una valida alternativa al tiggì delle venti, che ha fruttato milioni di visualizzazioni ai pionieri di questa tipologia di video. Accanto alla quale, però, nel 2015 è apparso il suo opposto: il primo video anti-haul, della drag queen Kimberly Clark, che si diverte a elencare le cose che “non comprerà” durante le vacanze. Una mossa che, nel tempo, è stata seguita da molti e generato tantissimi filmati a tema e altrettante visualizzazioni.
Il fenomeno sbarcherà anche nel food?
La domanda, a questo punto, sorge spontanea: il fenomeno del deinfluencing sbarcherà presto anche nel food? Lì dove lunghe file di ipotetici influencer hanno rubato la scena a tutti, consigliando questo e quel ristorante spesso senza la minima briciola di competenza e, soprattutto, con alle spalle una retribuzione dal locale stesso che sponsorizzavano. Una pratica non illegale, ci mancherebbe, ma tutt’altro che etica. Negli anni, per contrastare l’avanzata di influencer recensori di ogni cosa che fosse commestibile, sono nate anche in Italia figure competenti e preparate che hanno fatto di una narrazione sana e coerente il loro cavallo di battaglia.
Come il critico gastronomico del Corriere della Sera, Valerio Massimo Visintin, o il giornalista e conduttore televisivo, Lorenzo Biagiarelli, solo per citarne due. Ora qualcosa potrà cambiare? È presto per dirlo, finora non si sono ancora visti o sentiti deinfluencer che sconsigliassero ristoranti. Ma è facile immaginare che il fenomeno, partito dal settore beauty ma aperto a qualsiasi prospettiva, possa presto arrivare anche all’ambito enogastronomico.
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Alberto Lupini
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