Altro che editoriali o congressi dei super esperti. Bastano neanche due ore di un film per demolire tutta la retorica su cui si è costruito il tempio del cosiddetto “fine dining”, la cucina raffinata che spesso viene tanto più celebrata quanto più è estrema, incomprensibile e irrispettosa del cliente. Se la vera arte è quella che fotografa e anticipa i tempi, "The Menu", il film attualmente in streaming su Disney +, può davvero considerarsi un capolavoro per la capacità di spazzare via, con un’efficacia incredibile, tutti i luoghi comuni e le deformazioni che hanno accompagnato negli ultimi tempi una certa alta cucina autoreferenziale, che pretende di essere accettata come un atto di fede, dimenticando che un cuoco non è un Guru e solo raramente può essere considerato un artista, mentre spesso è un bravissimo artigiano.
Parliamo di un film che tutti i cuochi, i ristoratori, il personale di sala, i critici gastronomici, i pretesi gourmand o i più semplici buongustai dovrebbero vedere come occasione di aggiornamento professionale. Con un rigore impietoso, che alterna ironia, horror e perfetta conoscenza di come funzionano certi ristoranti, la satira del regista Mark Mylod è la più efficace denuncia di come una certa ristorazione abbia voluto imporre gusti e mode, grazie ad una sorta di voyerismo, che stampa e televisione hanno creato e sostenuto negli anni, enfatizzando la figura e il ruolo del cuoco, che erano arrivati a sostituire nell’immaginario collettivo perfino i calciatori. Con tanto di discepoli adoranti pronti ad usare le foto dei piatti accese sui social come tante candele su un altare.
Quando la cucina perde se stessa
"The Menu" rappresenta anche un po’ la fine di una parabola ispirata al buonismo che idealizzava il mondo della cucina, fatto di sacrifico e impegno. Altro che “Ratatouille”, il lungometraggio del 2007 che attraverso il topino Rémy raccontava l’amore per il cibo e la commozione per gusti e sapori che ci ricollegano a momenti importanti della nostra vita. Il ristorante era immaginato come il luogo dove ognuno di noi si ritrova a suo agio e dove è il calore, non solo quello delle fiamme dei fornelli, a caratterizzare l’ambiente. Persino il freddo e spietato critico enogastronomico, assaggiando la ratatouille di Rèmy, alla fine cede al sentimento che il piatto gli trasmette, riportandolo indietro a sapori mai dimenticati della sua infanzia.
La passione e il calore di Ratatouille sono sfumati
A distanza di nemmeno 16 anni, questo nuovo film, decisamente dark, distrugge l’immagine di una certa alta ristorazione che sembra perdere di colpo credibilità, e da occasione di piacere diventa luogo di finzione, esagerazione e paranoia. Diventa anzi un’occasione da evitare per non rischiare addirittura di perdere la propria vita, secondo il film. Il fine dining, tanto celebrato sulle riviste patinate per pochi eletti, viene messo alla berlina con una crudezza ed un’ironia che pareggiano in maniera quasi perfetta le esagerazioni dei troppi cuochi, anzi, gli chef, appagati quando la brigata grida all’unisono “SI CHEF!”, come nelle ridicole parodie che Masterchef fa di una cucina.
(SPOILER) Una critica che ha anticipato la chiusura del ristorante Noma
La realtà, poi, è per fortuna meno cruenta rispetto alla morte di quasi tutti i protagonisti del film. Ci si limita magari alla chiusura di uno dei “santuari” di un modo estremizzato di intendere il rapporto fra cucina, ricerca, ristorazione e cliente. Pensiamo al Noma di Copenaghen che cede le armi per avere forse debordato rispetto alla funzione di un ristorante, sia pure tristellato e ai vertici delle classifiche mondiali stilate da chi dovrebbe avere "testato" tutti i ristoranti del mondo.
Ma il valore del film “The Menu” non si ferma qui. Oltre ad aver squarciato il velo quasi intoccabile che avvolge certi star chef. mette a nudo i difetti delle gestioni abilmente coperte dal marketing e il bigottismo di critica e clienti. Con intelligenti citazioni sull’abuso di credibilità di alcuni ristoranti, si colpisce la gestione (il patron-angelo che viene fatto annegare). E qui tornano alla mente gli scandali sull'uso e abuso di materie prime contraffatte, ma spacciate per prodotti unici (comprati magari al supermercato). Ma non mancano poi impietosi ritratti di critici disancorati dalla realtà che, al pari degli star chef (di cui sono spesso talent scout e complici), celebrano riti sul nulla. Nè mancano all'appello i clienti che, alla ricerca dell’effimero, sono disposti a pagare qualunque cifra per sedere a un tavolo e mostrare sui social le foto del culto a cui partecipano.
Autoreferenzialità e ricerca sofistica che separa lo chef dal cliente
Quando si parla di “una certa ristorazione” ci riferiamo a quella fatta di autoreferenzialità e sceneggiate teatrali in cui si dà l’illusione di inseguire chissà quale perfezione (l’acqua di mare ghiacciata su un pezzo di scoglio nel piatto), viene schernita come nessuno aveva mai osato fare. Così come si sottolinea il vuoto che lascia spesso una ricerca talmente sofistica da annullare il piacere di mangiare. E questo perché il cuoco ha magari annullato il piacere di cucinare, che diventa un atto freddo, scientifico, orientato a volte più a stupire: tanto, troppo spesso si parla di esperienze in un ristorante, anche se in pochi comprendono cosa mangiano.
A volte il fine dining esasperato è la negazione delle emozioni che può suscitare un piatto di cui si riconoscono aromi e ingredienti: in molti clienti, infatti, scatta la quasi omertà nel nascondere il fatto di non aver capito il piatto, o l’esperienza che sta vivendo. Il cibo, invece, dovrebbe risvegliare in chi mangia dei sentimenti o ricordi - pensiamo ancora al film "Ratatouille - innescati dal sentimento e dall'amore di chi cucina, che finiscono irrimediabilmente nel piatto. Ed infatti la protagonista di “The Menu”, è l'unica che riesce a salvarsi dall’omicidio-suicidio che coinvolge tutto il personale del ristorante e i clienti, perché riporta alla memoria dello chef quando in gioventù lui cucinava felice degli hamburger in un semplice ristorante. Salvo poi inaridirsi in una ricerca fine a se stessa che non lascia però memoria, tanto che nel film alcuni clienti vengono “puniti” perché non ricordano che piatto avevano mangiato in passato in quel ristorante. Ma d’altra parte, è la morale del film, in certi locali ci si va solo perché sono costosi e qualche guida li premia e fa figo andarci.
E come non citare del film anche l’episodio del pane (l’essenza della vita e della nostra cultura a tavola), che non viene servito, ma c’è al contrario la portata del «piatto di pane senza pane»: il pane è per i contadini - dice lo chef - quindi a questi ospiti privilegiati, voyeristi del nulla, non viene servito alcun pane con le salsine da intingere. Una presa per i fondelli che però la maggior parte dei commensali accetta e si autoconvince della scelta fatta solo per stupire. Quasi un richiamo alla cucina molecolare di cui abbiamo perso traccia, o quasi, per la sua inconsistenza, ma che aveva fatto versare fiumi di inchiostro a tanti critici entusiasti del nulla…
Per evitare il peggio ora la Michelin si affida ai videogiochi per tentare di agguantare la stella...
Chissà che davvero ora si cambi passo sul serio. A meno che, consapevoli dei rischi di certe cucine, non ci si rifugi nell’ultima trovata: lo CHEF LIFE: A RESTAURANT SIMULATOR, il nuovo videogioco realizzato in collaborazione con la Guida Michelin (la cui ombra aleggia in tutto il film "The Menu"), in cui ci si può cimentare, fra gestione approvvigionamenti e cucina, per tentare di conquistare una stella.
Chissà che non sia giunto davvero il momento di scrivere la parola fine a certe deformazioni di un lavoro, quello del cuoco, che ha una grande dignità, indipendentemente dalla citazione in una guida o dall'estrosità di un piatto. In fondo ne va della dignità e del valore della nostra cucina che è uno dei simboli del nostro stile di vita invidiato in tutto il mondo e che equipara gli chef ai trattori.
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Alberto Lupini
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