Tutto è cominciato con la crisi del fine dining all'italiana: i personaggi televisivi o comunque celebri non tirano più, gli chef stellati sono in crisi, c'è sempre meno gente disponibile a pagare più di cento euro per un pasto. Se ne parla, e non da ora. Conviene, però, inquadrare la situazione in campo lungo: la ristorazione in Italia è tutta più o meno in crisi, o almeno così si dice. Sarà perché non si trova il personale, per il costo dell'energia, per il prezzo delle materie prime o per il caro-affitti, certo è che nel 2023 il numero di attività di ristorazione registrate decresce per il terzo anno consecutivo, passando dalle 392.535 del 2022 a 387.583 (-1,2%). In altre parole, più di un ristorante su cento ha chiuso i battenti. È quanto emerso dal Rapporto 2024 dell'Osservatorio ristorazione, presentato di recente nell'ambito della IV edizione del Forum della ristorazione, all'interno del Padova Congress. Ma ritorniamo alla cause: vuoi vedere che c'entra qualcosa pure la mancanza di clienti in pausa pranzo, specie in quei luoghi in cui il pranzo di lavoro, sul lavoro, col lavoro, è da tempo un fenomeno sociale?
Pranzo di lavoro a Milano: lo smartworking svuota i ristoranti
In questo senso, Milano dovrebbe essere una buona cartina di tornasole, e quindi proviamo a contattare Matteo Scibilia: porta ben due cappelli, essendo consigliere di Epam-Fipe, l'associazione di categoria dei pubblici esercizi di Milano, Lodi, Monza e Brianza,nonché titolare del ristorante “Piazza Repubblica”, in zona stazione Centrale a Milano.
Sfiancato dal Covid, prosciugato dall'inflazione: a Milano l'impiegato/dirigente/ professionista che dir si voglia si siede ancora al ristorante, a mezzogiorno?
«Sempre meno, senza dubbio - ci risponde lo chef Scibilia - e lo smart working in questo senso fa la sua parte. Il fenomeno è più visibile nelle grandi città, stando a quanto riferito dagli associati, ma anche in provincia si nota. E la diminuzione riguarda tutti, dal ristorante alla trattoria, dalla tavola calda al fast food».
Un fenomeno generalizzato, quindi…
«Non accade solo a Milano, lo stesso problema si ritrova un po' ovunque: e mi riferisco sia al territorio nazionale sia alla nostra città, dove le lamentele del bar di periferia sono uguali a quelle del ristorante a due passi dalla Galleria».
Dunque lo smart working incide: qualche altra causa?
«Si è innescata una spirale inflazionistica incontrollabile. Sono andato a mangiare l'altro ieri in una panineria del centro: toast, birra e caffè mi sono costati venti euro. Non accuso nessuno e capisco le difficoltà dei miei colleghi: certo è che si deve capire, dobbiamo capire che con questi prezzi, se non vogliamo chiudere tutti, abbiamo il dovere di comunicare efficacemente con la nostra clientela. E mettere in chiaro che la qualità ha un costo: l'alternativa è rovinarsi lo stomaco».
Polpetta: la catena di ristoranti che sfida la crisi del pranzo di lavoro
«Abbiamo inaugurato da quattro mesi il nostro “Polpetta” a Milano, in via Tortona, dopo i tre locali analoghi già aperti a Roma, e finora i riscontri sono positivi. Anche in pausa pranzo». A parlarcene è Giovanni Nerini, socio e chef della catena di ristoranti “Polpetta”: dove tutto è polpettabile, come recita lo slogan aziendale.
Nerini, qualche dettaglio in più?
«Il ristorante milanese può accogliere fino a duecento coperti, includendo gli spazi esterni. A pranzo ospitiamo fino a cento persone al giorno, grazie alla posizione in cui ci troviamo. Abbiamo un paio di grandi uffici nei dintorni, la nostra fortuna è quella».
E quindi la posizione del locale è il fattore-chiave?
«La maggior parte del fatturato viene da lì, se le aziende dovessero trasferirsi non so cosa succederebbe. Noi lo abbiamo visto a Roma: due dei nostri tre esercizi sono in sofferenza, magari perché una grande azienda ha chiuso o traslocato. In tal caso le conseguenze si sentono, eccome».
Ma secondo lei, in generale, è in aumento la schiscetta in ufficio o no?
«A me non pare: vedo invece che la gente ha sempre meno voglia di cucinare in casa».
Pranzo di lavoro a Milano: i consumatori a caccia di risparmio
Stesse domande, interlocutore diverso: vediamo ora dal lato consumatore che aria tira e ci rivolgiamo ad Enzo, il cui ufficio si colloca a duecento metri da piazza Duomo. «Cosa è cambiato? Si spendono più soldi, innanzitutto, per ottenere porzioni più piccole. Un primo in pre-Covid lo trovavi anche a otto euro, ora si parte da dieci, ma è proprio il minimo. Devi andartela a cercare, la tavola calda dove spendere meno: io ho trovato la mia e ormai frequento solo quella, per risparmiare un po'. Quando si è costretti a tirare la cinghia il rapporto qualità-prezzo viene prima di ogni altra cosa. Più difficili da apprezzare i ristoranti fighetti, che qui non mancano, visto che ci troviamo giusto nel cuore della capitale finanziaria: per un primo si parte da quindici euro. Abbastanza spesso, nello stesso posto ove sono di casa io, ci vedo anche i miei dirigenti».
Il che significa che anche chi potrebbe spendere di più non lo vuol fare. E lo scontrino medio? Si ordina meno, secondo la sua esperienza?
«Certo: se prima mi facevo portare il dessert, qualche volta, ora non ci penso nemmeno. E così unisco l'utile al dilettevole, il risparmio alla riduzione delle calorie».
Il futuro del pranzo di lavoro a Milano: verso un modello più qualitativo
Rimaniamo nel centro-centro della città e ci spostiamo di poco, verso via Cusani, alle porte di Brera, dove troviamo “Obicà - Mozzarella Bar, Pizza e Cucina”, un grande locale da 100 coperti disposto su due piani, parte di un gruppo ancora più grande, con 22 filiali in Italia e all'estero. Ci risponde l'amministratore delegato del gruppo, Davide Di Lorenzo. «La pausa pranzo - puntualizza Di Lorenzo - è ancora uno dei punti di forza di Obicà e i nostri numeri non sono in calo: attualmente la crescita stimata, rispetto agli anni precedenti, è del 10%. Io credo che sia proprio il nostro format a sposarsi bene col pasto di mezzogiorno: siamo partiti nel 2004 come mozzarella bar e abbiamo aggiunto man mano la pizzeria e la cucina. La nostra clientela ci vede proprio come un luogo da pranzo, dove degustare i prodotti del meridione d'Italia, tipici, identitari, difficili da trovare altrove così freschi ed autentici».
La tipicità e l'identità, allora, sono i fattori anticrisi di Obicà?
«Direi anche il tipo di clientela: i nostri locali sono quasi sempre centrali, e quindi è facile richiamare l'attenzione di professionisti, manager, dipendenti di fascia alta, e turisti che non si accontentano di uno snack al volo. Ma, ribadisco, è il tipo di ristorazione che offriamo a fare la differenza: la qualità delle materie prime è molto alta, ci facciamo conoscere attraverso prodotti in grado di identificare un territorio, una nazione e una filosofia gastronomica; ed inoltre riusciamo ad abbattere i costi, grazie a una centrale unica d'acquisto che serve tanti punti di ristorazione. Queste economie di scala il singolo ristoratore neanche le immagina. No, la crisi della domanda in questo momento non è al centro delle nostre preoccupazioni, siamo più in apprensione per i costi crescenti del personale. Ma questo è un altro discorso».
Ristoranti di quartiere: la chiave per sopravvivere alla crisi del pranzo di lavoro
Sui motivi e sulla reale entità della crisi abbiamo già registrato pareri diversi, a quanto pare, ma facciamo un ulteriore verifica: ci rechiamo da “Sottobosco”, a Milano in via Don Bosco, ristoro di quartiere stretto da Morivione e Vigentino da un lato, e Calvairate dall'altro versante di corso Lodi. Il Duomo dista km 3,3. «In generale devo dire che non ci possiamo lamentare - racconta il titolare Giorgio Raffaghelli - e la pausa pranzo non rappresenta un problema, anche se il flusso è soggetto ad oscillazioni dipendenti da mille fattori: tutto sommato ci sta. Il “Sottobosco” ha solo 30 coperti a disposizione e si riempie tutti i giorni. La clientela è costituita soprattutto da lavoratori, ma va ampliandosi: arrivano pure coppie, famiglie, e poi quei curiosi che vogliono sperimentare un menù serale anche a pranzo, mettiamola così».
Le percezioni dei suoi colleghi sono, molto spesso, negative. Raffaghelli, lei è in controtendenza…
«Non me lo immaginavo, ma ovviamente le credo. Certo, lo smart working ha causato qualche oscillazione in negativo, ma la curva lentamente risale».
Il suo segreto?
«Così, su due piedi… Il mio locale è piccolo, le dimensioni in questo momento sono d'aiuto. Anche la zona è da valutare con attenzione: non dobbiamo affrontare qui la concorrenza che si trova in pieno centro, e alla fine riusciamo a fidelizzare il cliente, a creare un rapporto personale e a giovarci del passaparola: un grande risparmio, in termini commerciali. Inoltre, si è creato un rapporto fra me, mia moglie e gli abitanti del quartiere, ormai ci conosciamo, si respira un'atmosfera familiare: che si avverte e affascina, quando uno entra da “Sottobosco”».
Incredibile: la trattoria-ristoro di quartiere funziona meglio del sushi alla brasiliana, del poke d'avanguardia, della pizza gourmet, della braceria supertrendy. E funziona nell'anno del Signore 2024 e a 3 km dal Duomo, non nelle lande di Beregazzo con Figliaro! C'è una lezione da imparare? Magari è solo fortuna, e si può intuire che il metodo “atmosfera-della-nonna” non è standardizzabile né replicabile. Eppure chissà, magari esempi come questo, e come quello del gruppo “Obicà”, servono a evitare di piangersi addosso, e a rendersi conto che in economia non esistono problemi insolubili ma solo soluzioni ancora nel buio. In attesa della luce.
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Alberto Lupini
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