Consumi ristorazione ancora timidi. E i brand italiani rallentano all'estero
Secondo i report di Confcommercio e Confimprese, i primi mesi del 2021 non hanno portato grandi novità in termini di consumi tanto che rallenta l'espansione retail dei brand: solo 44 aperture food all'estero
15 aprile 2021 | 14:42
Sono passati 13 mesi dall'inizio della crisi sanitaria legata al Coronavirus e l'economia italiana sembra aver raggiunto il limite di sopportazione. Anche se si evidenziano i primi segnali di recupero, infatti, è indubbio che la pandemia abbia rallentato la corsa di diverse attività, a partire dalla ristorazione che, insieme al turismo, paga lo scotto più caro. A dirlo sono due ricerche, una di Confcommercio e l'altra di Confimprese. In sintesi? Sia in Italia che all'estero i brand faticano a riconquistare i clienti.
A marzo segnali positivi, ma illusori per tutte le categorie
Sebbene il problema sanitario non sia ancora del tutto sotto controllo e le incertezze (leggi alla voce riaperture) sono ancora molte, alcuni indicatori economici appaiono in recupero. A patto, però, di saperli leggere. Come ha ricordato Confcommercio nel repor relativo ai consumi di marzo 2021, «c’è la necessità di distinguere i segnali di genuina ripartenza da quelli illusori, derivanti dal mero confronto statistico rispetto ai primi mesi della pandemia durante i quali furono sostanzialmente inibite moltissime attività».
L'Icc (Indice dei consumi di Confcommercio) segnala che a marzo si è registrato un primo ritorno in territorio positivo: crescita del +20,6% nel confronto annuo. Peccato che questo dato appaia largamente insufficiente a compensare le perdite dei consumi patite un anno fa. Insomma, il livello di spesa reale è ancora inferiore del 19% rispetto a quello di marzo 2019. Per i pubblici esercizi, per esempio, a fronte di un +6,8% a marzo, si deve tener conto di un passivo di oltre il -40% nei mesi precedenti.
L'apparente recupero, inoltre, ha interessato quasi esclusivamente i beni, mentre per i servizi la situazione si configura sostanzialmente come il raggiungimento di una soglia minima oltre la quale è praticamente impossibile scendere. Turismo, mobilità e tempo libero sono infatti in flessione pesantissima e prossima al -100%. «Permane a rischio la sopravvivenza di molte imprese del comparto, se non verrà loro permesso al più presto di tornare a operare secondo un programma definito», si legge nella nota Confcommercio. In alcuni ambiti della domanda di beni, in particolare abbigliamento e calzature, gli incrementi tendenziali di marzo, a due o anche a tre cifre, non sono sufficienti a colmare le perdite pregresse: nel confronto con i valori del 2019, le riduzioni di spesa in termini reali sono ancora attorno al 30%.
Su un panel di circa 40 rispondenti di medie e grandi dimensioni, la previsione è pari a 390 aperture e 128 chiusure. Un quadro generale che riflette la situazione pre-pandemica: nel 2020 i punti vendita delle imprese associate presenti all’estero erano 3.620, di cui 2.491 nel non food, 620 nell’abbigliamento e accessori, 509 nella ristorazione. Quest'ultimo il settore che più ha frenato con solo 44 aperture all'estero.
«La previsione di aperture sui mercati esteri – ha commentato Mario Resca, presidente Confimprese – denota la necessità del retail di proseguire nello sviluppo delle reti distributive per conquistare quote di mercato in Paesi come il Sud-Est asiatico e il Nord America, dove permane l’interesse per i prodotti iconici del Made in Italy. Le imprese hanno beneficiato anche della crescita dei prestiti Sace, che nel 2020 ha mobilitato risorse per 46 miliardi raddoppiando i volumi del 2019 a supporto dell’internazionalizzazione delle imprese e sostenendo circa 15mila imprese di medie e piccole dimensioni. Le sfide di oggi si giocano in un contesto diverso dal passato, saranno vincenti le imprese preparate a muoversi in un nuovo mondo, dove digitale e sostenibilità sono le parole chiave per rivolgersi alle nuove generazioni di consumatori globali. Per rispondere all’urgenza del momento e rafforzare il posizionamento strategico del made in Italy sui mercati di domani è importante l’azione di supporto del nostro sistema Paese».
A marzo segnali positivi, ma illusori per tutte le categorie
Sebbene il problema sanitario non sia ancora del tutto sotto controllo e le incertezze (leggi alla voce riaperture) sono ancora molte, alcuni indicatori economici appaiono in recupero. A patto, però, di saperli leggere. Come ha ricordato Confcommercio nel repor relativo ai consumi di marzo 2021, «c’è la necessità di distinguere i segnali di genuina ripartenza da quelli illusori, derivanti dal mero confronto statistico rispetto ai primi mesi della pandemia durante i quali furono sostanzialmente inibite moltissime attività». L'Icc (Indice dei consumi di Confcommercio) segnala che a marzo si è registrato un primo ritorno in territorio positivo: crescita del +20,6% nel confronto annuo. Peccato che questo dato appaia largamente insufficiente a compensare le perdite dei consumi patite un anno fa. Insomma, il livello di spesa reale è ancora inferiore del 19% rispetto a quello di marzo 2019. Per i pubblici esercizi, per esempio, a fronte di un +6,8% a marzo, si deve tener conto di un passivo di oltre il -40% nei mesi precedenti.
L'apparente recupero, inoltre, ha interessato quasi esclusivamente i beni, mentre per i servizi la situazione si configura sostanzialmente come il raggiungimento di una soglia minima oltre la quale è praticamente impossibile scendere. Turismo, mobilità e tempo libero sono infatti in flessione pesantissima e prossima al -100%. «Permane a rischio la sopravvivenza di molte imprese del comparto, se non verrà loro permesso al più presto di tornare a operare secondo un programma definito», si legge nella nota Confcommercio. In alcuni ambiti della domanda di beni, in particolare abbigliamento e calzature, gli incrementi tendenziali di marzo, a due o anche a tre cifre, non sono sufficienti a colmare le perdite pregresse: nel confronto con i valori del 2019, le riduzioni di spesa in termini reali sono ancora attorno al 30%.
Rallenta lo sviluppo estero: solo 44 punti vendita food in apertura
Non sorprende, quindi, che se questa è la domanda si sia raffreddata anche l'offerta. Sopratutto quella che dall'Italia va oltre i confini del Belpaese per raggiungere altri mercati. Secondo quanto riportato da Confimprese, infatti, a fronte di un saldo netto di 262 nuovi punti vendita in apertura nel mondo, il retail Made in Italy va verso un'internazionalizzazione rallentata.Su un panel di circa 40 rispondenti di medie e grandi dimensioni, la previsione è pari a 390 aperture e 128 chiusure. Un quadro generale che riflette la situazione pre-pandemica: nel 2020 i punti vendita delle imprese associate presenti all’estero erano 3.620, di cui 2.491 nel non food, 620 nell’abbigliamento e accessori, 509 nella ristorazione. Quest'ultimo il settore che più ha frenato con solo 44 aperture all'estero.
«La previsione di aperture sui mercati esteri – ha commentato Mario Resca, presidente Confimprese – denota la necessità del retail di proseguire nello sviluppo delle reti distributive per conquistare quote di mercato in Paesi come il Sud-Est asiatico e il Nord America, dove permane l’interesse per i prodotti iconici del Made in Italy. Le imprese hanno beneficiato anche della crescita dei prestiti Sace, che nel 2020 ha mobilitato risorse per 46 miliardi raddoppiando i volumi del 2019 a supporto dell’internazionalizzazione delle imprese e sostenendo circa 15mila imprese di medie e piccole dimensioni. Le sfide di oggi si giocano in un contesto diverso dal passato, saranno vincenti le imprese preparate a muoversi in un nuovo mondo, dove digitale e sostenibilità sono le parole chiave per rivolgersi alle nuove generazioni di consumatori globali. Per rispondere all’urgenza del momento e rafforzare il posizionamento strategico del made in Italy sui mercati di domani è importante l’azione di supporto del nostro sistema Paese».
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Alberto Lupini
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