La voglia di crescere e superare la crisi del comparto agroalimentare, a causa della congiuntura complessa e globale, inizia a riflettersi sul mercato in maniera preoccupante. I dati statistici ci dicono che il 2022 si è concluso tra alti e bassi e con valori complessivi difficili da decifrare.
Se da un lato i numeri crescono a livello di fatturati di vendita, dall’altro scendono come volumi di acquisto. La spiegazione più logica, da attribuire certamente anche all’inflazione, non rende il quadro generale più roseo, anzi. Il Pil (prodotto interno lordo) si è salvato in positivo per il 2022. Le previsioni per il 2023 sono appena sopra l’1%, cifra sulla quale tende l’ombra di uno scenario possibile della Banca d’Italia, che non esclude il ritorno a un Pil in negativo nel 2023 (-2%).
Una serie di sfide molto impegnative
Secondo il Rapporto Coop 2022 a preoccupare maggiormente sono soprattutto i consumi e i risultati economici della filiera alimentare. Se, infatti, dopo un anno di aumenti record, le previsioni stimano un primo rallentamento dei prezzi entro l’estate, l’inflazione dei beni alimentari lavorati resterà elevata, +6,7% medio nel 2023. Questi pochi dati sono sufficienti a fornire un’immagine del comparto, cruciale per la nostra economia, che si trova davanti a una serie di sfide molto impegnative e che prendono il via da fattori economici e sociali assolutamente inusuali come la pandemia e la guerra.
Se poi aggiungiamo la questione ambientale, la faccenda si complica. La sostenibilità ambientale, nel suo insieme poliedrico di aspetti che coinvolgono la società a tutti i livelli sociali ed economici, si sta rivelando forse l’ostacolo più ostico da superare. Ormai si parla solo di questo e ogni misura, azione e provvedimento, soprattutto se di contenuto “poco popolare”, si trascina attori e opinionisti coinvolti in accesi dibattiti (a volte anche fuori luogo, ndr) forti dai concetti di ambientalismo e sostenibilità.
Ambiente e sostenibilità: quale direzione per il comparto food?
Per il comparto agroalimentare il rispetto dell’ambiente e la sostenibilità delle produzioni non sono argomenti nuovi, anche perché strettamente correlati alla sicurezza alimentare. Vale la pena, però, notare e riflettere, con estrema attenzione e responsabilità, che esagerare e spingere in questa direzione il comparto food, potrebbe comportare una serie di rischi che a breve termine porteranno non poche difficoltà, mentre a lungo andare possono diventare devastanti. Produrre cibo di qualità, sicuro, sostenibile e in quantità sufficiente per tutti, è un’impresa non facile, né tanto meno semplice.
Voltare pagina e sopprimere tradizioni e culture alimentari secolari da un giorno all'altro, perché ritenute nocive per le politiche ambientali, non può essere la strada giusta da intraprendere per forzare certi sistemi, soprattutto in questo momento storico. E con questo non mi riferisco ai recenti accesi dibattiti sull’introduzione di nuovi alimenti e ingredienti come la farina di grillo e la carne coltivata. I litigi, se possiamo chiamarli così, a livello di opinione pubblica, tutto sommato si stanno limitando intorno alla questione di impatto e gusto tra chi li mangerà e chi no. Purtroppo, pochi approfondiscono il tema dal punto di vista della sostenibilità etico-economica dei “novel food”.
Ogni inversione di rotta esige un cambiamento profondo
Se ragioniamo in termini pratici, la fotografia della nostra industria alimentare evidenzia, come altri comparti produttivi, un tessuto imprenditoriale composto da micro imprese e pmi padronali-familiari, molto attente alla qualità del prodotto, ma poco propense a un assetto organizzativo evoluto con la presenza di manager e specialisti in ricerca e sviluppo e che difficilmente possono permettersi investimenti significativi.
Questo scenario ci permette di capire meglio il perché la conversione brusca verso l’economia sostenibile nasconde problemi sommersi. Come al solito, ogni inversione di rotta esige un cambiamento profondo, in certi ambiti una vera e propria rivoluzione culturale. Possiamo dire che la punta dell’iceberg è l’agricoltura intensiva che sicuramente va rivista assieme a tutti i discorsi sull’utilizzo di pesticidi, fertilizzanti, additivi e conservanti. Ma non è detto che una volta sciolto il ghiaccio, sotto ci si trova terra ferma e sicura.
Tante domande, senza facile risposta in questo periodo di incertezza
Più probabilmente ci saranno un mare di problemi e altre questioni che oggi non vediamo o semplicemente non vogliamo vedere. Quanti produttori, aziende, operatori dispongono oggi di capitali e risorse, sia dal punto di vista tecnologico sia di personale qualificato, che possano permettergli di effettuare transizione completa verso le tecnologie 4.0 e di basso impatto ambientale? Quante aziende possono investire in ricerca e sviluppo di processi e prodotti innovativi?
Tutte domande senza facile risposta soprattutto in questo periodo di incertezza. Viene da pensare che il futuro della produzione alimentare, quella sostenibile, almeno per il momento rimanga solo alla portata delle multinazionali e dei fondi di investimento, in grado di influenzare anche le decisioni politico-economiche che guidano e dettano tempi, modi e regolamenti legislativi a livello internazionale. Spero di sbagliarmi e mi auguro che quando si parla di transizione ecologica e produzione a basso impatto ambientale nel compato agroalimentare, si tenga conto della necessità di azioni e misure coerenti con la realtà dei diversi componenti del sistema.
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Alberto Lupini
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