Non è un Paese per la carne coltivata. Già lo sapevamo ma l'Italia si conferma comunque poco aperta all'innovazione e alle forme alimentari complementari. La ricerca però va comunque avanti e presso l'Università di Trento uno studio sta mettendo a punto un nuovo sistema di produzione di carne coltivata. Partendo cioè dalle piume dei polli.
Carne coltivata, il Governo ribadisce il suo "no"
Carne coltivata sì o no? Nonostante una buona parte dei mezzi di informazione, compresi quelli specializzati nel food, si sia da tempo apertamente schierata a favore di questa alternativa alimentare (alternativa, specifichiamo bene, non imposizione), il Governo cavalcando come un surfista provetto l’onda del populismo da mesi ormai combatte un'aspra battaglia contro questa opportunità (alimentare e commerciale).
Un ostracismo che si è materializzato, anche con toni abbastanza vivaci, solo pochi giorni fa, quando alla Camera è stato votato l’ok al divieto di produzione e vendita di questo cibo nel mercato nazionale. Esulta ovviamente la Coldiretti, portabandiera di pseudovalori come “cucina italiana”, "salute" e “tradizione gastronomica nostrana” di cui in tanti sono capaci di riempirsi la bocca, ma in pochi di fatto sanno esattamente di cosa si tratti.
Dieta mediterranea: un concetto espresso molte volte non solo dai politici, che comprensibilmente si fanno forti del consenso popolare, ma anche dagli stessi cittadini. Questi stessi cittadini che, in non pochi casi, sembrano prediligere alimenti che con la tanto glorificata dieta mediterranea non c’entrano proprio niente. Un esempio? I fast food nel nostro Paese sono in costante aumento, sempre più persone ci vanno a mangiare e sempre più conseguentemente ne aprono in un circolo vizioso che si autoalimenta. Cibi ultra processati, grassi, zuccherati "sì", ricerca su alternative alimentari rese necessarie anche (se non soprattutto) dall’impatto ambientale che la produzione degli alimenti convenzionali hanno, e dall’aumento vertiginoso della popolazione mondiale, "no". Logico.
Italiani contro la carne coltivata. Ma a Trento una ricerca per produrre quella di pollo
Da mesi ormai si parla di carne coltivata, con le discussioni che ne sono nate, nascono e nasceranno. La maggior parte della popolazione si è detta contraria, in tanti non vogliono nemmeno sentirla nominare, quasi fosse uno spauracchio dal quale stare alla larga. Fortunatamente, però, nonostante l’ostracismo del Governo la ricerca (grazie soprattutto ai privati) va avanti, per quanto in altri Paesi nel mondo come Usa e Singapore prodotti del genere vengano già commercializzati.
Si tratta del caso, nello specifico, di uno studio in corso presso l’Università di Trento e seguito dalla dottoressa Nike Schiavo. Una ricerca che propone già un’ “alternativa”, se così vogliamo definirla, ai sistemi di produzione di carne coltivata di cui abbiamo sentito parlare fino a oggi. Uno studio che parte non dall’estrazione di cellule direttamente da animali vivi o macellati, bensì dalle piume dei polli per estrarre staminali le quali poi, adeguatamente coltivate, diventano i “mattoncini” per costruire un prodotto fatto e finito. Edibile e commerciabile. Senza dover necessariamente passare per l’allevamento degli animali (con tutti i costi che ne derivano, economici e ambientali) e la loro uccisione e macellazione. Per farci spiegare meglio lo studio abbiamo parlato direttamente con la dottoressa Schiavo.
Carne di pollo dalle staminali delle piume, come funziona lo studio
Dottoressa, da cosa è partita questa ricerca?
«Il mio progetto di ricerca nello specifico è nato dall’interazione con una fondazione privata, Save the Chickens, che si occupa di benessere animale, principalmente dei polli. La fondazione, vedendo nella carne coltivata una potenzialità per ridurre l’allevamento intensivo, voleva capire come effettuare questo genere di ricerca andando a inficiare il meno possibile sul benessere del pollo».
E quale metodo state studiando per produrre carne in questo modo?
«Per fare carne coltivata si può partire da un animale già macellato, prelevando le cellule necessarie, oppure fare una biopsia. Altro metodo può essere tramite prelievo di materiale da animali non completamente sviluppati. Ci sono varie possibilità di ricavare le cellule. Una tecnica che non è stata ancora ampiamente studiata, e che stiamo seguendo, è quella di andare a prelevare cellule staminali da piume di animali sviluppati. Quindi così è partito il progetto, dalla possibilità che esclude la macellazione o comunque un’intervento troppo invasivo sull’animale. E questo entrava nella visione della fondazione che ci ha parzialmente finanziati. Il progetto di cui mi sto occupando, nello specifico, riguarda lo sviluppare delle cellule che possano essere utilizzate per produrre carne coltivata a partire dal prelievo di piume di pollo. Stiamo testando diverse modalità di coltura di queste cellule ricavate dalle piume, cresciute in un liquido di coltura ottenuto da siero animale che contiene zuccheri, amminoacidi, vitamine, tutte sostanze che servono a un organismo per crescere. Servirà, in una fase successiva della ricerca, un bioreattore per produrre quantità enormi di cellule che possono essere assemblate in un prodotto commerciabile ed edibile».
A che punto siete della ricerca? Quali sono le sue tempistiche?
«Al momento abbiamo stabilito come in un mese di coltivazione siamo riusciti ad ottenere 700/800 grammi di cellule. Questo è un primo step che ci permette di capire la scala di cui stiamo parlando: da una singola piuma siamo arrivati in poche settimane a questa quantità di cellule che poi, ovviamente, dovranno essere assemblate in un prodotto. Noi siamo partiti verso aprile e ci siamo dati inizialmente un anno, quindi fino a primavera 2024 la ricerca andrà avanti e si vedrà quali sono i risultati raggiunti, cercando di capire come procedere da lì in avanti in base a quella che è la necessità della ricerca. Noi speriamo di produrre una linea ottimizzata che possa essere presa in considerazione dalle aziende che si occupano di carne coltivata».
Carne coltivata: «Fare ricerca in altri Paesi sarebbe più facile»
Il Governo da mesi sta portando avanti una politica ostracista verso il settore. Tutto ciò vi ha rallentato? Se avessi fatto la ricerca in Paesi più all’avanguardia, o semplicemente più aperti in questo senso, saresti più avanti?
«Premessa: per sviluppare questo genere di prodotto servono ingenti investimenti. Investimenti che arrivano da privati, ma sarebbe ottimo averne anche da investitori pubblici. Ci vorrebbe un sistema che aiuti la ricerca, non che si tiri indietro in questo ambito. Quindi in questo senso fare ricerca in un altro Paese, in questo settore, può esser più facile nella misura in cui nel Paese scelto ci sia questo genere di sistema che finanzi e vada ad alimentare la nascita di un ecosistema attorno al nostro campo. Ovviamente essendo l’Italia deliberatamente contro questo genere di tecnologia non penso vedremo, almeno con questo Governo, finanziamenti pubblici. Quindi faremo esclusivo affidamento al settore privato. Anche in tal caso bisogna trovare un investitore che sia disponibile a finanziare una ricerca, ma poi sarà costretto a produrre in un altro Stato, e a vendere chissà dove. Sicuramente ciò non incentiva la ricerca, e anche nel settore privato non vedo investitori interessati perché non avranno la possibilità di produrre in loco e commercializzare nel nostro Paese. Da quel punto di vista fare questo tipo di ricerca fuori, nei Paesi in cui la ricerca è supportata, è sicuramente più vantaggioso».
E il fatto che buona parte della popolazione sia contraria in partenza alla carne coltivata di certo non aiuta…
Fare disinformazione su un argomento nuovo, poco conosciuto, è semplice. Come ricercatrice in questo caso mi piacerebbe che al pubblico venisse data la possibilità di scegliere, poi ognuno è libero di farsi la propria idea. Avere l’opzione di scelta sarebbe sicuramente un buon punto di partenza. Mi auguro ci sia una continua informazione di ciò che noi facciamo, sia a livello umano sia ambientale. Su questo ovviamente la popolazione andrebbe educata, anche a come valutare i cibi. Perché non tutti i cibi sono uguali, non tutti hanno lo stesso impatto sull’ambiente, non tutti danno le stesse proprietà nutritive. Ma se la carne coltivata assicura gli stessi nutrienti della convenzionale, ma inquina meno, perché escluderla a priori?.
Parlando di novel food, è già considerabile come cibo del futuro o è ancora presto con tanta strada e ricerca da fare?
«A mio avviso bisogna fare un passo indietro in questo ambito. Tra 50 anni spero che l’umanità abbia capito come ciò che mangia abbia un impatto considerevole su ciò che ci circonda, sull’ambiente. In tanti si riempiono la bocca con la Dieta mediterranea ma di fatto nemmeno la conoscono fino in fondo (e tantomeno la seguono, ndr). L’italiano medio non segue la dieta mediterranea, contrariamente a ciò che si possa pensare, e quindi già partire da questo punto di vista potrebbe avvicinarci verso quello che spero possa essere il futuro. Ovviamente avere un sistema produttivo diversificato aiuta a essere più resilienti. Qualora dovesse arrivare la siccità, o qualche patogeno animale, e non si riuscisse più a produrre carne in maniera tradizionale comunque si avrebbe un’alternativa ai metodi convenzionali, qualora questi dovessero essere messi in crisi da altri sistemi. Sicuramente queste proteine complementari, ci aggiungo anche i prodotti a base di insetto, avranno un ruolo nel futuro, a patto che il cittadino del futuro sia ben informato e consapevole di tutto».
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Alberto Lupini
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