Prima di ogni analisi, c'è un dato, che arriva da un approfondito report realizzato dal Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria: un produttore italiano di latte su quattro potrebbe non riuscire a far fronte ai pagamenti immediati e a coprire i costi correnti, con il forte rischio di dover chiudere l'attività.
Gli effetti di questa crisi potrebbero colpire a cascata l'intera filiera, arrivando a minacciare anche le eccellenze casearie del made in Italy, quelle Dop che utilizzano il latte italiano. Non solo economicamente, cosa che peraltro sta già in parte accadendo, ma anche sotto l'aspetto strettamente legato alla produzione. In parole povere: senza produttori, non ci sarebbe latte a sufficienza. Anche di questo si parlerà oggi e domani al B2Cheese, l’unico salone nazionale della filiera lattiero-casearia dedicato esclusivamente agli operatori del settore, in programma a Bergamo.
Ma procediamo con ordine...
Costi di produzione del latte: aumenti del 111%
Entrando nel dettaglio dell'analisi del Crea, emerge come i costi di produzione per il latte italiano siano schizzati del 111%. Gli aumenti riguardano infatti tutte o quasi le componenti che interessano le aziende. L'impatto medio aziendale nazionale stimato è di 29.060 euro, mentre sugli allevamenti da latte sale addirittura a 90.129 euro. Tali aumenti sono legati all’eccezionale rincaro (a livello medio aziendale) delle spese per l'energia elettrica (+35mila euro), per l'acquisto di mangimi (+34mila euro) e dei carburanti (+6mila euro).
Il report evidenzia anche le variazioni su scala territoriale: la circoscrizione nord occidentale, che registra il più elevato incremento dei costi (oltre 138.000 euro per azienda), è quello con i minori incrementi percentuali (+106%), mentre in quella nord orientale i costi aumentano del 108%, per crescere progressivamente nel centro (+112%), nel meridione (+129%) e nelle isole (+138%).
Le fatiche dei piccoli produttori
Il quadro numerico precedente porta al risultato già citato: un produttore su quattro rischia il crack e a farne le spese sono soprattutto i produttori più piccoli. Luciano Moretti è uno di loro. Oltre a essere stato sindaco di Truccazzano, il suo paese, ha circa 70 vacche, che producono latte di alta qualità utilizzato per il gorgonzola e per altre produzioni alimentari. «Una volta la mia azienda sarebbe stata di medie dimensioni, ora quelle piccole non esistono più - ha sottolineato - Vanno avanti soltanto i grossi produttori. Facciamo veramente fatica ad andare avanti. Faccio un esempio: lo scorso anno spendevo 800 euro al mese di corrente, per la mungitura e per il raffreddamento del latte, oggi, con meno capi, ne spendo 2.800. Cosa posso fare?».
La situazione di Moretti è simile a quella di tanti altri produttori di latte, da nord a sud. «L'impressione è quella di avere l'acqua appena sotto il naso, sufficiente appena per non farci affogare - ha aggiunto - È aumentato tutto e bisogna trovare il modo per risparmiare, togliendo per esempio le integrazioni per vitelli e vacche che non mungiamo. Per il resto fieno, che produciamo noi, e paglia, che però è aumentata. Le speculazioni sono anche interne al settore».
«80 centesimi al litro per una vita dignitosa»
In un contesto così complesso, è normale che l'attenzione viri sul "dato ultimo", quello attorno al quale ruota ogni discorso: il prezzo del latte al litro. Se ne parla approfonditamente anche nel già citato report Crea che spiega come «il maggiore costo di produzione non appare dunque assolutamente compensato dall’incremento del prezzo del latte».
Focalizzando l’attenzione sul confronto tra la remunerazione del latte e il suo costo di produzione, emerge come nella situazione base (dati medi 2016-2020) il costo operativo (ovvero quello che comprende sia i costi variabili che il costo del lavoro) si attestava attorno ai 30 cent/l a fronte di un riconoscimento del prezzo all’ingrosso per unità di prodotto di 36 cent/l, differenza che seppur minima, in passato ha garantito all’agricoltore un margine lordo di 5/6 centesimi a litro di latte. Confrontando questo risultato con quello del 2022, ovvero con la situazione di scenario, emerge che i prezzi all’ingrosso del latte sono aumentati di poco più di 11cent/l (fonte CLAL primo quadrimestre) rispetto al periodo di riferimento. Tale aumento assolutamente non riesce a coprire i costi operativi, che sono più che raddoppiati.
«A ottobre dello scorso anno ce lo pagavano 38 centesimi - ha sottolineato Moretti - Alla fine dell'anno ho dovuto vendere delle vacche per poter pagare i costi. A gennaio si è saliti a 55 centesimi, ma in questo momento ne servirebbero 80 per avere una vita dignitosa».
Eppure cresce
Detto dei produttori, proviamo invece a capire come vivono la situazione le aziende che il latte italiano lo acquistano per poi trasformarlo. Tra queste c'è Igor Gorgonzola di Novara. Fabio Leonardi è l'amministratore delegato, oltre a essere consigliere di Assolatte. «La situazione è complessa, ma vorrei partire dai numeri - ha esordito - Negli ultimi due anni la produzione di latte in Italia è aumentata di circa il 10%. Un trend positivo che non è stato scalfito nemmeno da un anno terribile come il 2022. Nel primo semestre infatti non si sono registrate diminuzioni, nonostante la siccità e le numerose difficoltà. Mentre Francia e Germania sono in crisi...».
Ma come se lo spiega? E non vi preoccupa la possibilità che un produttore su quattro chiuda i battenti?
La realtà è che si tratta di un trend che va avanti da anni. I produttori diminuiscono, la produzione aumenta. Questo perché è in atto una selezione che sta portando a un grande salto di qualità. A chiudere sono le stalle più piccole, con strutture vecchie. La tecnologia permette di ridurre al minimo le perdite anche in condizioni complesse.
Igor come si è mossa in un contesto così delicato?
Noi abbiamo voluto dare un segnale di responsabilità, aumentando il prezzo del latte. Paghiamo 57 euro per 100 litri, quando lo scorso anno erano 38, e ci facciamo carico del trasporto e della qualità. Da qui deriva la nostra vera preoccupazione...
Vale a dire?
La tenuta del mercato. Gli aumenti sui prodotti ci saranno. La domanda è: terranno i consumi? Lo vedremo nelle prossime settimane. Non ci spaventa la diminuzione dei produttori, ci preoccupa di più il mercato, ma anche il possibile effetto della siccità dei mesi scorsi sulla stagione invernale. Potrebbe mancare il foraggio...
Parmigiano Reggiano e incertezze
A risentire della situazione potrebbe essere anche un colosso come Parmigiano Reggiano. L'allarme in questo senso è arrivato qualche giorno fa da Confagricoltura, con il presidente della sezione emilano-romagnola Roberto Gelfi che ha spiegato: «Si rischia di non produrre i quantitativi di latte richiesti, per la trasformazione in formaggio Parmigiano Reggiano, dalla programmazione 2023-2024 del Consorzio. Infatti, a causa dei rincari, l'allevatore potrebbe decidere di ridurre il numero di capi e di conseguenza la produzione complessiva di latte».
Perché? A causa dei già citati rincari e delle difficoltà di sostentamento i produttori potrebbero scegliere «di vendere subito parte del latte crudo sul mercato spot, destinandolo ad altri usi alimentari e non alla trasformazione in Parmigiano Reggiano».
E i prezzi aumentano
La conseguenza, come per Igor, è l'aumento dei prezzi. Dopo due anni di assoluta stabilità, il Parmigiano ha infatti subito un leggero incremento di prezzo. «Gli aumenti dei costi minano alla radice la capacità del settore di mantenere i conti economici in equilibrio - ha spiegato Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio - Il nostro sforzo sarà quello di trasferire il meno possibile il rincaro dei costi di energia e materie prime sul consumatore, aprendo un dialogo con i grandi gruppi che commercializzano il nostro prodotto e con il retail affinché il nostro prodotto rimanga accessibile ad un numero sempre maggiore di famiglie».
La filiera però, sempre secondo Bertinelli, sembra aver retto bene. «I costi di produzione hanno subito un incremento complessivo pari al 15%-20% - ha proseguito - Ciò è dovuto all’aumento del costo delle materie prime (in primis, i cereali) e al caro energia. Il margine di guadagno per le nostre aziende si è molto ridotto. Tuttavia, la nostra filiera si è dimostrata capace di assorbire i rincari senza riversarli sul consumatore finale che compra oggi il nostro prodotto. È ovvio che rimangono motivi di preoccupazione per un eventuale ulteriore aumento dei costi. Ci confortano i dati del primo semestre 2022, indicanti un incremento delle vendite e dei consumi mondiali pari al +2,4% a volumi».
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Alberto Lupini
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