Aromi, l'alta cucina italiana a Venezia, dove la laguna ispira i piatti

Lo chef Luca Nania guida la cucina dell'Hilton veneziano dopo le tante esperienze all'estero. Un professionista che ama il gusto italiano, ma sa cimentarsi anche con la cucina fusion

27 aprile 2022 | 16:01
di Luca Bassi

Quando una strada è segnata e il destino ha deciso c’è poco da fare: quello dev’essere. Per Luca Nania quella della cucina è stata una scelta quasi obbligata, spinta da una necessità nata quasi per caso, quando era poco più che bambino.

Un incontro casuale che ha dato vita a un grande amore, a una passione che è diventata vita professionale per lo chef siciliano che, dopo avere girato mezzo mondo, oggi guida Aromi restaurant, il ristorante moderno dell’Hilton Molino Stucky Venice alla Giudecca. Uno dei locali più esclusivi di Venezia, con un curriculum che parla al posto suo: Luxury Hotel Restaurant of the Year 2019, Italy ai World Luxury Restaurant Awards; Destination Restaurant of the Year 2018, Italy ai Luxury Travel Guide Food & Drink Awards; Fine Dining Experience of the Year 2018, Veneto ai Travel & Hospitality Awards.

Insomma, per arrivare a guidare una delle strutture più grandi, frequentate e premiate d’Italia serve un’esperienza non indifferente. E fa sorridere pensare da dove è partito Nania prima di arrivare a Venezia: «In cucina mi ci sono trovato quasi per caso, per necessità - ci racconta -, poi è diventato un amore». E la passione la si trova nei piatti, dagli gnocchi con cicala di mare e scampi al lombetto di agnello. Piatti senza dubbi legati al gusto italiano, ma capaci di intercettare anche una clientela internazionale come quella dell'Hilton. E fra i piatti da non mancare certamente vanno ricordati i tortelli di baccalà mantecato,  il rombo chiodato cotto nel burro di nocciola o la vicciola con midollo e senape (assolutamente da provare).

 

Come è iniziato tutto?

«L’inizio è stato per colpa della motocross. Amavo quello sport ma quando mi sono reso conto di quanto costava praticarlo, ho capito che dovevo darmi da fare per potermelo permettere. Ricordo che avevo appena 12 anni quando ho deciso di dare una mano al proprietario della pista di motocross, una pista importante a livello nazionale, nella quale si allenavano molti campioni. Così ho iniziato a dare una mano in cucina: lavavo e tagliavo le verdure, qualche volta spadellavo, ogni tanto servivo anche i pasti ai piloti. Ho iniziato così, per puro caso».

Poi i viaggi all’estero l’hanno fatta diventare un cuoco vero.

«America, Cina e Russia, ma anche tanta Italia. Ogni esperienza mi ha dato qualcosa, ogni avventura mi ha fatto crescere come uomo e come cuoco».

 

Per un cuoco che ha viaggiato così tanto viene da pensare che il fusion sia il suo mondo. È così per lei?

«Più che di fusion mi piace parlare di contaminazione. Il fusion non è una cosa che mi appartiene ma forse se si intende come una tecnica culinaria diversa da quella utilizzata in Italia allora sì, tecnica di cottura, tecnica di essiccazione, di affumicatura o di salagione, tutte tecniche che magari in Italia venivano usate ma che poi sono scomparse perché si modificano le tecniche di cucina, non solo i piatti».

La sua formazione si è svolta quasi completamente lontano dall’Italia. Ce n’è una che è stata particolarmente significativa?

«Possiamo dire che la mia università, anche come manager e non solo come cuoco, è stata al JW Marriott Pechino, un flagship hotel di 140 camere, grandi eventi, 2 ballroom, 4 cucine e 110 persone sotto il mio controllo. È lì dove sono passato da executive sous chef a executive chef: quella è stata la mia università la mia più grande esperienza manageriale. Ho lavorato quasi quattro anni senza un giorno di riposo per essere al passo con tutto quello che accadeva. Facevamo di tutto: servizi da 1000 persone e tanto altro».

E la cucina italiana cosa significa per lei?

«Significa tutto, ed è giusto che sia così. Io sono cresciuto a pesce fresco, pastasciutta. E oggi i risotti, amo cucinarli e amo mangiarli. Per me la cucina italiana è sicuramente la priorità adesso che sono rientrato nel mio Paese, ma non escludo che se un domani dovessi trasferirmi in un’altra nazione, con un’altra cultura, cercherei io di adattarmi alla loro sapienza per poi dargli un’interpretazione mia».

   

Quindi fusion.

«In quel caso sì, potrei chiamarla fusion. Di certo, però, non è questo il caso all’Hilton Molino Stucky».

All’Hilton oggi servite qualcosa come 600 colazioni e oltre 100 coperti. Come si può far funzionare sempre tutto così bene?

«Sicuramente la brigata è quella che ti dà la sicurezza anche perché tu puoi essere attento a ogni particolare, ma non puoi arrivare sempre da tutte le parti. Quindi il segreto è avere a fianco delle persone fidate, professionisti che sanno dove mettere le mani e intervenire quando qualcosa non va per il verso giusto».

 

Venezia e la sua laguna quanto la ispirano?

«Tanto, tantissimo. Pensate che io e i miei collaboratori spesso facciamo riunioni all’aperto, guardando la Giudecca, piuttosto che in ufficio. La laguna non solo ci ispira ma ci influenza anche: cerchiamo di metterla sempre nei nostri piatti».

 

Aromi Restaurant

Sestiere Giudecca, 810, 30133 Venezia VE

tel 041 272 3316

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Alberto Lupini


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