Il 30% di bar e ristoranti non riapre? L'allarme rosso di Unimpresa
Per l'assenza di liquidità e di incentivi fiscali da parte del Governo. La denuncia del vicepresidente Giuseppe Spadafora. L'associazione delle piccole imprese ricorda il rischio mafia
02 maggio 2020 | 16:48
di Alberto Lupini
Giuseppe Spadafora, vicepresidente Unimprese
Secondo il Centro studi di Unimpresa per almeno un terzo degli imprenditori, la ripresa di alcuni esercizi commerciali è sconveniente sul piano economico, tenuto conto dei costi fissi che non vengono in alcun modo congelati nè ridotti (affitti, utenze, tassa sui rifiuti e sul suolo pubblico). E tutto ciò senza considerare che molte di queste microaziende vivono anche di lavoro nero, con il che rischia di aprirsi un dramma sociale sul versante dell’occupazione. Il crollo del 30% di negozi, bar e ristoranti si potrebbe tradurre, considerando le attività connesse, in una riduzione del giro d’affari complessivo che riguarda decine di miliardi di euro che difficilmente potrebbero essere recuperato da altre imprese.
«È ormai certo che migliaia di artigiani non riapriranno e parliamo di circa il 30% delle attività di ristorazione, bar, piccoli negozi di abbigliamento, piccole rivendite di articoli al pubblico. Non riapriranno, perché è antieconomico. Tutte queste piccole attività dovendo riaprire a giugno, si ritroveranno a saldare affitti, tasse e merce in negozio - ha commentato il vicepresidente di Unimpresa, Giuseppe Spadafora, secondo il quale le attività legate alla ristorazione e al commercio al dettaglio - non hanno avuto accesso ai 25 mila euro propagandati dal governo e tutti si dovranno attenere alle nuove disposizioni sulle distanze. In sintesi, un bar che riapre a giugno potrà lavorare con un terzo dei clienti semplicemente perché non li potrà fare entrare nel proprio esercizio. Vuol dire anche un terzo degli incassi, ma con gli stessi costi fissi come bollette, affitti, tassa sul suolo pubblico, rifiuti». Secondo Spadafora «lo Stato non ha le risorse per sostenere queste imprese e probabilmente non avrà i soldi per sostenere la disoccupazione da questa derivate. Inoltre, questo è il settore maggiormente colpito dal nero, ma che di contro, mantiene una certa coesione sociale. Come sappiamo, l’economia ha una forma piramidale. Il grande produce, il medio rivende, il piccolo compra per vendere al cliente finale. Se chiudono o non riaprono migliaia di piccoli esercizi commerciali, a catena saltano per aria tutti gli altri».
Che fare in queste condizioni? Sempre Unimpresa rilancia la richiesta di interventi urgenti sul piano fiscale a partire da un azzeramento degli acconti Ires e Irap a ridurre e rimandare il saldo imposte a dicembre 2020, dallo sterilizzare sterilizzare gli ex studi di settore per evitare che lievitino le imposte in caso di un punteggio basso a cancellare l’Iva per alcuni mesi con l’obiettivo di dare un forte shock ai consumi. E tutto fino alla sospensione degli avvisi fiscali “bonari” che pare peraltro il Governo abbia già daciso.
«Il premier Conte si scusa per il ritardo con cui l’Inps sta erogando i 600 euro per il sostegno alle famiglie e già parla di aumentare le somme a 800 euro - commenta il consigliere nazionale di Unimpresa, Marco Salustri – ma il problema è capire chi veramente abbia percepito finanziamenti, perché il fondato timore è che l’istituto abbiamo ormai esaurito fondi necessari per tutti. Per non citare la beffa agli autonomi, iscritti a casse private, che hanno compilato la domanda più di un mese fa, ancora in lavorazione, neanche fosse un prestito da un 1 milione di euro». Secondo il consigliere di Unimpresa «le imprese, ormai allo stremo, vedranno applicarsi il test delle società di comodo, disciplinato con l’articolo 30 della legge 724/1994 che, attraverso un test basato su percentuali di ricavi, in relazione ad alcune poste di bilancio, dirà alle imprese se sono “operative” o meno. In caso gli indici dessero esito negativo il risultato, per le imprese, sarebbe di vedersi applicare un’aliquota Ires maggiorata di oltre 10 punti percentuali, con un’aliquota Ires complessiva di oltre il 34%».
Le imprese, inoltre, già fortemente indebitate, non hanno alcun interesse ad ottenere prestiti che le esporrebbero ulteriormente nei confronti degli istituti di credito. È facilissimo prevedere le conseguenze: chiusura definitiva dell’attività, con i lavoratori e le rispettive famiglie sul lastrico, o vendita delle quote a società straniere “affamate” di acquisire le competenze italiane che sono uniche nel panorama mondiale o, peggio ancora, essere cedute, in modo sotterraneo, ad organizzazioni criminali che estenderebbero le loro mani a 360 gradi su tutto il territorio nazionale. E uno dei primi campi d’azione della mafia potrebbe proprio essere quello dei pubblici esercizi.
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Alberto Lupini