Molte scelte sono scontate e alcune certamente apprezzabili. Rispetto ad alcuni anni fa c’è poi un passo avanti verso un po’ più di omogeneità di giudizi riguardo al
gruppo di testa che rappresenta l’alta cucina. Come dire che più o meno tutti sono d’accordo che sul podio virtuale (inteso come posizione da primus inter pares) ci siano Massimo Bottura, Massimiliano Alajmo ed Heinz Beck, per citare solo alcuni nomi. Appena si scende di un gradino, però, i distinguo fra le diverse guide si evidenziano al punto che le valutazioni sembrano riguardare ristoranti totalmente diversi. E se anche questo può essere quasi accettabile, dal momento che sono in ballo sensibilità o competenze, qualche dubbio di fondo si ripresenta. E il pensiero porta inevitabilmente a chiedersi
se la logica dei guidaioli sia davvero utile a lettori, cuochi e ristoratori; o se, estremizzando un ragionamento, ha ancora un senso la logica di giudizi ancorati a vecchi schemi che non trovano riscontro nelle vendite, per lo più in caduta libera e al momento poco compensate dalle iniziative online. Per non parlare della capacità di rappresentare un sistema aperto e complesso come quello della
ristorazione italiana che - anche restando ai livelli alti - non è rappresentato di fatto da nessuna guida.
Finita la stagione della presentazione delle classifiche dei ristoranti, con franchezza e senza infingimenti, dobbiamo quindi dire che di amaro in bocca ce ne resta tanto. C’è un problema legato alle posizioni di alta classifica, dove ci sono troppi vuoti che indeboliscono l’immagine della nostra Cucina nel mondo. E qui la responsabilità più grande è della
Michelin che impone standard a cui le guide più “italiane” non sono in grado di rispondere adeguatamente. 8 tre stelle in Italia sono francamente poche rispetto al valore della nostra ristorazione, e solo interessi di bottega dei francesi possono giustificare queste scelte. E le tendenze che riguardano soprattutto le scelte dei turisti stranieri le decide la “rossa”.
Ma di fatto se poco ci importa di una stella,
una forchetta e
un cappello aggiudicati in più o in meno, quello che non si può proprio vedere sono molte riduzioni di livello. Quando si tolgono dei punti si dovrebbero dare delle giustificazioni chiare e precise. Un po’ per aiutare il ristoratore a capire in cosa potrebbe avere sbagliato (ammesso che sia così). E un po’ per non disorientare il lettore-cliente che in quel locale oggi bastonato non aveva avvertito cambiamenti in negativo.
Scontata la libertà di giudizio di ogni curatore o guida, a volte sembra che certe scelte siano senza senso, un po’ come molti
commenti su TripAdvisor. Nessuno può certo dare per scontato che l’aver conquistato una posizione di visibilità valga per sempre. Ci mancherebbe altro. Ma passare da una posizione ritenuta importante ad una inferiore, potrebbe costare parecchio. Dare e togliere valore ad un locale o ad un cuoco non è una cosa ininfluente anche nella gestione. E un po’ di attenzione e, soprattutto, spiegazioni chiare non guasterebbero. Con assoluta serenità vogliamo dire che avere ad esempio tolto stelle a professionisti del calibro di Davide Scabin, Paolo Teverini o Burkhard Bacher, per citare solo alcuni nomi, è ingiusto per il loro impegno che non è certo venuto meno in questi ultimi mesi. Anzi. Se davvero la Michelin voleva riaffermarsi come la più autorevole delle guide stavolta ha perso i colpi. O forse le sue stelle cominciano ad essere cadenti…