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Birra artigianale senz'alcol? O si cambia la legge, o si cambia mestiere

La birra analcolica cresce anche in Italia, ma i birrifici artigianali rischiano l'esclusione. Normative obsolete e costi di produzione elevati bloccano l'innovazione. Il mercato sarà dominato dall'industria se non si provvede ad introdurre riforme legislative. Serve una svolta per permettere ai microbirrifici di competere nel settore in forte espansione della birra senza alcol

Mauro Taino
di Mauro Taino
Redattore
01 agosto 2025 | 05:00
Birra artigianale senz'alcol? O si cambia la legge, o si cambia mestiere

Cresce il consumo di birre analcoliche, cresce la pressione del mercato, ma la birra artigianale italiana è davvero pronta a rispondere? La sfida non è solo di gusto o di marketing: è tecnica, normativa ed economica. E per molti piccoli birrifici si sta trasformando in un bivio identitario. Il nodo centrale si chiama pastorizzazione: vietata per legge a chi vuole fregiarsi del titolo “artigianale”, è però spesso indispensabile per garantire la sicurezza delle birre dealcolate. Il risultato? Il comparto si trova spiazzato tra l’etica del craft e la realtà del mercato, mentre l’industria, più libera e meglio attrezzata, avanza. In questa inchiesta diamo voce ai protagonisti di un cambiamento che potrebbe ridisegnare i confini stessi della birra artigianale italiana.

Birra artigianale senz'alcol? O si cambia la legge, o si cambia mestiere

La birra artigianale alla prova del segmento no alcol

Pastorizzazione vietata: il nodo che blocca l’innovazione

In base alla definizione normativa attualmente in vigore, la birra artigianale è quella prodotta da un birrificio indipendente di piccole dimensioni, che non ricorre a processi di pastorizzazione né di microfiltrazione durante la fase di produzione. Per essere considerato tale, un "piccolo birrificio indipendente" deve rispettare alcune condizioni precise: dev’essere giuridicamente ed economicamente autonomo da qualsiasi altro birrificio, utilizzare impianti di produzione fisicamente separati da quelli di eventuali altri produttori, non può operare in regime di licenza su marchi o proprietà intellettuali di terzi e la produzione annua non deve superare i 200.000 ettolitri, conteggiando anche eventuali volumi realizzati per conto terzi.

Birra artigianale senz'alcol? O si cambia la legge, o si cambia mestiere

Carlo Vischi, advisor nel settore agroalimentare e nel food tourism

«Il vero problema del comparto craft - spiega Carlo Vischi, advisor nel settore agroalimentare e nel food tourism - è che, per legge, per essere considerati birrifici artigianali non si può utilizzare un pastorizzatore né detenere uno strumento del genere in impianto. Questo è un vincolo normativo importante. Ci scontriamo con un limite che, in un certo senso, ci siamo autoimposti come la pastorizzazione, che, a mio parere, non rappresenta più un vero valore distintivo. Differenziarsi dal comparto industriale semplicemente perché non si pastorizza, secondo me, oggi non è più sufficiente. E non sono certo che questa differenza venga davvero percepita dal consumatore finale in termini di qualità. Questo comporta una grande difficoltà per i birrifici artigianali italiani nel produrre birra analcolica, perché tecnicamente questo tipo di prodotto richiede quasi sempre un processo di pastorizzazione».

Birra artigianale senz'alcol? O si cambia la legge, o si cambia mestiere

Fabrizio Ferretti, fondatore di Mosto

«Personalmente - dice Fabrizio Ferretti, fondatore di Mosto, marchio che possiede quattro birrerie a Napoli -, non sono contrario alla pastorizzazione in sé: ciò che conta è la qualità del prodotto finale. Se un birrificio riesce a realizzare una birra pastorizzata che conserva sapore, carattere e identità, ben venga. Non ho ancora avuto modo di effettuare una comparazione sistematica, ma di certo so che la microfiltrazione incide più pesantemente sul gusto rispetto alla pastorizzazione». «Siamo in un mondo borderline - commenta ancora Vischi -, anche perché i numeri sono ancora molto piccoli. Tutto dipenderà da cosa accadrà in futuro. Potrebbe anche esserci un'evoluzione normativa, e in effetti se ne sta parlando. Eliminare l’obbligo di non pastorizzazione per poter mantenere la dicitura “artigianale” sarebbe già un ostacolo importante in meno».

Qualità o ortodossia? Il dilemma dei birrifici indipendenti

Quindi Ferretti aggiunge: «È un limite normativo che andrebbe superato. So che alcuni consorzi di birrai stanno già lavorando per modificare questa regola, consentendo l’uso del pastorizzatore esclusivamente per la produzione di birre analcoliche, senza compromettere la denominazione artigianale delle altre referenze. Altrimenti, si rischia di favorire l’importazione di prodotti esteri, spesso realizzati con maggiore libertà normativa». Anche Enrico Rota, presidente di Otus, rimane su questa linea: «Se un domani il legislatore dovesse consentire la pastorizzazione solo per i prodotti dealcolati, allora potremmo parlarne. Ma c’è un punto importante: il produttore di birra artigianale ha a che fare con un alimento e bisogna tenerne conto».

Birra artigianale senz'alcol? O si cambia la legge, o si cambia mestiere

Enrico Rota, presidente di Otus

Una deroga ad hoc, in questo senso, è stata concessa a Birrificio Lambrate, come spiega uno dei fondatori, Giampaolo Sangiorgi detto “Il Monarca di Lambrate”: «Abbiamo già ottenuto da Unionbirrai l’approvazione per l’inserimento di un pastorizzatore all’interno del birrificio, fino a poco tempo fa non previsto dal disciplinare. Le norme per la “piccola birra italiana” vietavano pastorizzazione e filtrazione, ma per il solo prodotto analcolico - vista la sua delicatezza - è stata concessa una deroga».

Birra analcolica non pastorizzata: un rischio per la salute

Vischi ricorda i rischi di produrre una birra analcolica non pastorizzata: «L’unica soluzione praticabile, per ora, è la produzione e il consumo diretto nel proprio locale - dove la birra analcolica viene servita subito. Ma anche in quel caso si tratta di un’operazione rischiosa, come avviene per tutte le bevande non alcoliche non stabilizzate. Senza pastorizzazione, bisogna adottare accorgimenti particolari e fare molta attenzione. Il problema è molto più ampio di quanto sembri, e prima o poi qualcosa succederà. Con queste bevande fermentate fatte in casa, in caso di contaminazione, non si parla di un semplice mal di pancia: si finisce in ospedale. E quando accadrà, a pagarne le conseguenze sarà tutto il comparto, non solo chi ha commesso l’errore».

Birra artigianale senz'alcol? O si cambia la legge, o si cambia mestiere

Loris Mattia Landi, head brewer di Edit

Una preoccupazione condivisa anche da Loris Mattia Landi, di Edit, birrificio di Torino: «La birra analcolica è molto difficile, perché al di là di quello che può essere un equilibrio dove non è la classica birra e quindi stiamo creando effetti diversi, in realtà c'è un rischio di contaminazione batterica estremamente alto, anche perché l’alcol di per sé è uno degli strumenti migliori che si hanno per sterilizzare un contenitore. Ci siamo chiesti se valesse davvero la pena rischiare mettendo in commercio un prodotto non pastorizzato. I rischi possono essere davvero elevati».

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Simone Dal Cortivo, titolare di Birrone

Chi l'ha fatto invece è stato Birrone, che preservando la catena del freddo, ha lanciato due referenze fruttate (melograno e lampone) no alcol nella linea "Free from desire", come spiega Simone Dal Cortivo, titolare di Birrone: «Restiamo fedeli al nostro marchio di fabbrica: teniamo tutto in frigo. Tutti i nostri prodotti sono conservati nella catena del freddo, e così siamo riusciti a stabilizzare il prodotto senza problemi.  Tenendolo in frigo, il prodotto rimane stabile e manteniamo la qualità, perché filtrare o pastorizzare significa perdere qualità».

La produzione all’estero: scelta strategica o tradimento?

Per produrre birra artigianale analcolica oggi in Italia ci sono solo due strade: comprare un dealcolatore oppure farla produrre all’estero, come evidenzia Vischi: «I pochi birrifici che producono birra analcolica lo fanno appoggiandosi a impianti all’estero, dove forniscono una loro ricetta e delegano la produzione». È quest’ultima anche la strada intrapresa da Edit con la Friend or Faux «Noi abbiamo optato per una produzione con terzi. Abbiamo scelto un birrificio polacco e abbiamo deciso di far pastorizzare da loro una ricetta di birra craft analcolica. All’inizio abbiamo mandato in produzione 5.000 lattine come prova. Oggi facciamo 5 ordini l’anno da 5.500 lattine. Ha avuto successo, è stata una scelta che ha portato a determinati risultati di cui andiamo anche fieri». Otus, invece, ha una linea chiara: «Esternalizzare la produzione ci sembra incoerente. Non è che non sia corretto - si può fare - ma noi produciamo birra. Se devo farla produrre da altri, tanto vale cambiare lavoro. Otus ha una storia, ha un’identità, e quella non può essere delegata».

Dealcolizzazione, investimenti e limiti per i piccoli birrifici

Ma c’è anche un secondo tema cruciale che è quello la dealcolizzazione, come rimarca Vischi: «I costi di un impianto di dealcolizzazione sarebbero difficilmente ammortizzabili. Prima che rientri dell’investimento, passano anni. Ecco quindi che il problema diventa anche di sostenibilità economica, oltre che tecnico-normativo. I numeri oggi sono troppo piccoli per rendere questo segmento realmente accessibile a chi produce birra artigianale in Italia». «A Rimini, quest’anno abbiamo portato anche una birra chiara analcolica, come prototipo in piccola scala, ed è stato un grande successo: un bel prodotto, assolutamente. Portarlo in produzione su larga scala però significa avere attrezzature adeguate, e nel nostro caso dobbiamo valutare se il mercato lo giustifica, perché si tratta comunque di investimenti importanti», dice Dal Cortivo.

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Giampaolo Sangiorgi, fondatore di Birrificio Lambrate

Tra tutti i sistemi finora messi in atto per dealcolare si ritiene l’osmosi il metodo più adatto, ma ha costi molto elevati e le attrezzature sono costose, e oggi nessun microbirrificio può permettersi un investimento simile, almeno non per ottenere un ritorno sufficiente. Proprio Birrificio Lambrate, come detto, ha in cantiere un investimento in questo senso nell’ordine di 300mila euro per dealcolatore e pastorizzatore. Ferretti in questo senso sottolinea: «È chiaro che una spesa del genere non può essere affrontata da tutti i birrifici. Anzi, probabilmente il 98% di loro oggi non è nelle condizioni di sostenerla, soprattutto in questo momento storico. Piuttosto che investire in costosi impianti per dealcolizzare le birre esistenti, forse sarebbe più efficace lavorare sulla creazione di prodotti nati come analcolici, sfruttando le competenze maturate nel tempo e le eccellenze nelle materie prime».

Un investimento di questa portata significa che per Lambrate quello del no-alcol non è una moda passeggera, ma una nuova opportunità di sviluppo, come conferma Sangiorgi: «A livello impiantistico, oltre al pastorizzatore, stiamo lavorando anche all'acquisto di un dealcolatore. Il pastorizzatore rappresenta la fase finale, per garantire la stabilità del prodotto e poterlo offrire con serenità al mercato. Il dealcolatore sarà invece lo strumento tecnico essenziale per intervenire sul contenuto alcolico della birra vera e propria, riducendolo a valori come 0,4% o 0,3%». Quindi aggiunge: «È un investimento importante, anche perché oggi mancano ancora dati concreti e affidabili sulla reale richiesta e sull’apprezzamento della birra analcolica artigianale. Non è una scelta che si può improvvisare: qui si tratta di credere davvero nel progetto e di voler costruire qualcosa che abbia il dna del nostro birrificio».

Oltre la moda: il no alcol come occasione di rilancio

Tuttavia Landi ricorda: «Per anni si è detto che la birra artigianale non deve essere pastorizzata né microfiltrata. Ora dire “facciamo delle eccezioni” non è facile da far digerire. Ma secondo noi la pastorizzazione o la microfiltrazione non tolgono artigianalità a un prodotto. Il concetto di artigianalità è labile, e spesso viene superato in modi diversi. Non so se riusciremo a creare una rete su tutto questo, ma chi è più giovane e moderno come noi, comprende il discorso. Se non si cambia, e si insiste nel fare solo birre da 9 gradi, allora si rischia di uscire dal mercato».  Per Birrone, invece, la sfida si giocherà sulla qualità:  «Andare verso l’analcolico ha senso, ma solo se riusciremo a farlo buono, come abbiamo fatto con il gluten free. Altrimenti, è una moda che si brucia in tre giorni».

Il boom del no alcol sfida l’identità della birra artigianale

Enrico Treccani di Luppolajo affronta proprio la questione dei costi: «Credo che per un microbirrificio abbia molto più senso puntare su birre a basso tenore alcolico, perché sono più facili da gestire in termini di fermentazione e stabilizzazione. Quando invece si entra nell’ambito delle birre completamente analcoliche, si pongono problematiche più complesse. O si sceglie di pastorizzare - ma a quel punto si perde l’identità del microbirrificio, anche perché la normativa attuale non lo consente - oppure si dovrebbe investire in impianti altamente specializzati che, a oggi, sono poco accessibili per una piccola impresa. Quindi c’è effettivamente questo limite tecnico ed economico da considerare».

Birra artigianale senz'alcol? O si cambia la legge, o si cambia mestiere

Enrico Treccani di Luppolajo

«Fermarsi sull'idea che si debba per forza dealcolare la propria birra potrebbe non essere la strada giusta. Forse - dice Ferretti - è più sensato concentrarsi su un altro tipo di sviluppo: valorizzare le materie prime disponibili e, con il know-how acquisito in questi anni, provare a creare prodotti in grado di intercettare i gusti di chi oggi consuma ettolitri di bevande come le energy. Il mercato è stato letteralmente invaso da questo tipo di prodotti: possiamo e dobbiamo offrire un'alternativa credibile, coerente con la nostra identità artigianale».

Sangiorgi però rimarca: «Ad oggi, molti birrifici hanno prodotto birre “low alcol” interrompendo la fermentazione o usando lieviti particolari. Tuttavia, questi metodi portano spesso a prodotti sbilanciati, con un’elevata presenza di zuccheri residui, risultando quindi stucchevoli e poco equilibrati al gusto. Noi vogliamo realizzare un prodotto che sia realmente una birra, con alcol rimosso a valle. Solo così otterremo un risultato coerente con il nostro standard qualitativo: più simile alla birra tradizionale, meno pesante, più piacevole da bere.  Noi di Lambrate siamo riconosciuti per qualità, continuità e riconoscibilità. E anche se si parla di nuovi trend, questi valori restano imprescindibili. Finché saremo birrificio Lambrate, lo saremo in ogni singola goccia dei nostri prodotti».

Trovare lo stile giusto per conquistare un pubblico nuovo

In tema di stili, Sangiorgi rivela: «L’obiettivo è essere operativi con i nuovi impianti entro fine anno. In Germania, ad esempio, la tendenza è focalizzata sulle Helles analcoliche. Noi vogliamo realizzare un prodotto che sia realmente una birra, con alcol rimosso a valle. Solo così otterremo un risultato coerente con il nostro standard qualitativo: più simile alla birra tradizionale, meno pesante, più piacevole da bere. Abbiamo già iniziato a fare test anche su stili più “moderni” come le IPA. I risultati, finora, sono stati molto incoraggianti, anche oltre le aspettative. Ma il lavoro è appena cominciato: bisognerà verificare quali stili si prestano meglio alla dealcolazione e quali mantengono un buon profilo organolettico dopo il processo».

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Bisognerà capire quale stile si adatterà meglio alle birre analcoliche

«Abbiamo scelto - dice Landi - di fare una American Pale Ale, un po' atipico come scelta, perché di solito si trovano sempre delle lager analcoliche. Il grande classico delle birre analcoliche era quella con la pubblicità di Titichella degli anni '90. Però abbiamo cercato di fare qualcosa di un po’ diverso. Abbiamo scelto proprio l’American Pale Ale per distinguerci nel mercato, dove tutti proponevano lager analcoliche. È uno stile più luppolato, più “carino”, e questa scelta ci ha premiato nel tempo». Ferretti offre quindi uno sguardo ampio: «A livello stilistico, credo che ci siano stili più adatti di altri alla creazione di birre analcoliche. Negli ultimi tempi ho assaggiato birre di ispirazione belga molto convincenti, realizzate con lieviti che fermentano poco e producono naturalmente un basso tenore alcolico, risultando dolci e rotonde, perfette per incontrare il gusto dei più giovani. Al contrario, molte IPA analcoliche tendono ad assomigliare a tè luppolati, con una mancanza evidente di corpo e calore. Pilsner e Lager, invece, hanno una maggiore potenzialità nel mercato italiano, anche grazie a una maggiore familiarità da parte del pubblico.

La rivoluzione silenziosa dei birrifici che ci credono davvero

Sangiorgi, che con Birrificio Lambrate è stato tra i pionieri del boom della craft beer, non ha dubbi sul fatto che il no alcol prenderà sempre più piede, tanto che gli investimenti fatti sono figli proprio di questa visione: «Sicuramente è innegabile che la richiesta esista. Non si può far finta di nulla: bisogna restare aggiornati sulle nuove tendenze, e questa è una di quelle da monitorare con attenzione. Il mercato italiano è storicamente recettivo in ritardo rispetto ad altri paesi europei. Anche in Italia questa tendenza arriverà, per molteplici ragioni, e non possiamo permetterci di perdere quel treno, né tantomeno snobbare un prodotto che molti definiscono una moda passeggera, ma che in realtà non lo sarà. Noi ci stiamo lavorando. Il focus non sarà esclusivamente sul prodotto analcolico, ma non si può ignorare questa tendenza». Quindi aggiunge: «Come birrificio siamo sempre stati attenti al mercato, per questo abbiamo già iniziato a impostare un percorso di sviluppo. Si tratta di un lavoro impegnativo, con costi non irrilevanti, ma lo stiamo affrontando passo dopo passo. Il nostro obiettivo è dimostrare che, anche nel mondo delle birre artigianali italiane, possiamo sviluppare prodotti eccellenti e al passo con i tempi. L’industria ha mezzi economici importanti e può permettersi investimenti massicci, ma noi possiamo competere sulla qualità, sulla creatività e sull'identità».

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Il mercato no alcol guarda anche alle donne in gravidanza

Dal punto di vista di chi la birra la vende, come Ferretti, non ci sono dubbi: «A mio avviso, questa potrebbe rappresentare una delle nuove frontiere del movimento craft: non un tradimento dell’identità artigianale, ma un’espansione, un’evoluzione. Come accaduto in passato con altre categorie di prodotto anche le birre analcoliche artigianali possono rappresentare una risposta moderna e coerente alle esigenze delle nuove generazioni». Sarebbe però sbagliato limitare lo sguardo ai soli giovani: «Oggi c’è una domanda crescente e concreta da parte del pubblico: È un target trasversale: pensiamo ad esempio al "guidatore designato", ovvero colui che, all’interno di un gruppo di amici, sceglie di non bere alcolici per responsabilità. In passato, queste persone erano spesso costrette a optare per una cola o per altre bibite zuccherate. Con la birra analcolica, invece, si apre la possibilità di offrire un'esperienza sociale più completa e appagante, quasi paritaria rispetto a chi consuma alcol. Questo vale anche per altri target importanti, come le donne in gravidanza o chi, per motivi di salute o scelta personale, desidera limitare l'assunzione di alcol». 

Il fronte del no: chi rifiuta la corsa all’analcolico (e perché)

Non tutti, però, sono convinti di puntare su questo comparto, anche considerati i numeri che, nonostante la crescita, coprono ancora una parte marginale del mercato.  «Come birrificio Otus - dice Rota - abbiamo fatto delle riflessioni serie in merito, ma abbiamo deciso di sospenderle. I motivi sono diversi: il primo è normativo - attualmente il legislatore non consente la produzione di birra analcolica in Italia da parte di un birrificio artigianale, se non ricorrendo alla pastorizzazione, che ci è vietata. Poi, è vero: se rispetto la catena del freddo potrei produrre una birra senza alcol, ma significherebbe complicare la vita a tutti, dal produttore al distributore fino al gestore del locale. La catena del freddo non può mai essere interrotta, e questo non è sostenibile per tutti. E come detto, esternalizzare la produzione ci sembrava incoerente». Quindi conclude: «Per Otus, i numeri in crescita non rappresentano ancora una percentuale sufficiente da giustificare investimenti così importanti. Per ora, continuiamo a fare bene quello che sappiamo fare: birra artigianale vera».

Birra artigianale senz'alcol? O si cambia la legge, o si cambia mestiere

La birra accompagna momenti conviviali

Treccani, poi, non vuole sottostimare il rischio di perdere i consumatori, in fuga prima dalla birra tradizionale e poi anche da quella no alcol: «Per come la vedo io, iniziare a produrre quel tipo di birra è il primo passo verso un cambio di categoria da parte del consumatore, che potrebbe facilmente passare a bere bevande analcoliche generiche, abbandonando del tutto la birra. Non credo sia una mossa vincente per noi. Piuttosto, quello che dovremmo fare è valorizzare la nostra identità, puntando sulla produzione di birre tradizionali di qualità, e differenziandoci dai prodotti industriali, che spesso hanno una logica e un gusto che non rendono giustizia al valore del prodotto. Secondo me, la strada vincente è quella di proporre meno quantità ma più qualità, educare il consumatore a scegliere un prodotto artigianale, con una storia e una lavorazione autentica». «Dobbiamo fare - conclude - come è accaduto nel mondo del vino: c’è stato un passaggio da un consumo abbondante e dozzinale, a basso prezzo e di scarsa qualità, a un approccio più attento alla qualità e al valore del prodotto. L’obiettivo è far capire al consumatore che vale la pena bere meno, ma bere meglio. E che il gusto e l’esperienza che offre una birra artigianale non sono paragonabili a quelli di un prodotto industriale. Il nostro è un consumo conviviale, legato al momento, alla condivisione. E la birra artigianale fa parte di quell’esperienza».

Identità contro mercato: la sfida è culturale prima che tecnologica

La corsa al no alcol è iniziata e i birrifici artigianali non possono più permettersi di stare alla finestra. La questione non è più “se”, ma “come”. Adeguarsi senza snaturarsi, innovare senza tradire l’identità: è questo il vero terreno su cui si gioca il futuro del settore. Ma senza un aggiornamento normativo che riconosca la necessità di strumenti come il pastorizzatore per i soli prodotti analcolici, il rischio è che la rivoluzione passi sopra la testa di chi ha fatto della birra artigianale un simbolo di qualità e indipendenza. Il tempo delle scelte è adesso. E chi resterà fermo, rischia di restare indietro. O peggio, fuori mercato.

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