In questo mondo globale il cibo è ovunque, ormai si mangia dappertutto, ed è stata tolta ai ristoranti la leadership della somministrazione. I sapori si stanno sovrapponendo e mescolando e nello stesso tempo il gusto non c’è più, in questo mondo dove apparentemente la tradizione sembra stia scomparendo, tant’è che per certi versi la stessa cucina italiana potrebbe in alcuni casi definirsi etnica: in fondo che differenza c’è tra un ristorante milanese e un cinese o un indiano? Alcuni quartieri delle nostre città sono un tale mix di tipologie di ristorazione che è difficile in alcuni casi percepire dove ci si trova.
È inevitabile. La fotografia di un’epoca che sta finendo. La gestione familiare che per decenni ha costituito l’ossatura del nostro sistema ristorativo sta venendo meno, complice l’età avanzata di tanti, senza figli d’arte, complice anche l’indifferenza delle istituzioni, tra divisioni e individualismi del settore. Ancora oggi non si capisce se la ristorazione fa parte della grande famiglia del turismo, complice il sistema rappresentativo, con associazioni piccole e poco partecipate, divise tra cuochi dipendenti e imprenditori con obiettivi molto diversi.
Viene meno un’identità, una percezione professionale, tranne la figura del cuoco in televisione. Un cuoco però lontano dalla realtà, che non trasmette la difficoltà della ristorazione, anzi, le luci degli studi aumentano la percezione di un lavoro fatto non più di gavetta e anni di studi: cresce la sensazione del grande fratello/cuoco.
Certamente i critici gastronomici spesso incapaci di leggere la realtà si sforzano di raccontarci che in Italia si mangia meglio rispetto al passato, forse nei 50 ristoranti (sempre gli stessi) onnipresenti nelle cronache del settore. Tutta la categoria è cresciuta più per la capacità dei singoli, per la caparbietà di chi ha saputo sviluppare nuove tendenze, ma anche per il coraggio di tanti nel perseguire la strada di una cucina tradizionale e del territorio lontana dalle luci della ribalta.
Tant’è che tutto ciò viene confermato dalla lenta ma continua migrazione di molti cuochi verso attività più imprenditoriali, verso sbocchi che danno una migliore possibilità allo stesso chef di misurarsi a tempo pieno con la creatività della cucina con la copertura di imprenditori del mondo alberghiero, edile, vinicolo o della moda. Come non dargli torto, anche se poi il turnover è talmente elevato che spesso non si sa dove opera quel tal cuoco o quell’altro.
Senza dimenticare l’aggressività del web, dove dinanzi ad un anonimato caciarone e incolto il cuoco e il ristorante sono indifesi. Le guide cartacee sono all’opposto, e nel tentare di non restare indietro una rispetto all’altra sono praticamente immobili, i giudizi sono sempre gli stessi, tranne sporadici “scoop” di un qualche cuoco retrocesso.
Tutto questo, e molto altro ancora, sta provocando qualche reazione all’interno della categoria. La domanda o quantomeno l’osservazione più diffusa è: ma noi cuochi abbiamo qualche responsabilità? Ancora: ma la nostra professione è riconosciuta come tale? Il cuoco, il ristoratore è un vero professionista o è solo un commerciante spesso indicato come un evasore fiscale e un imprenditore pasticcione?
Da un punto di vista d’immagine e di categoria, il cuoco è nel mezzo di tutta la questione. Cosa fare allora? È arrivato il momento di fare squadra, sul serio, tutti assieme. In Italia si calcola ci siano oltre 10mila ristoranti che possono definirsi di qualità. Bisogna che il cliente, il consumatore, sia “informato” di più e meglio. Il cuoco e il ristoratore sono il cuore della filiera alimentare, sono i professionisti del cibo.
Bisogna che insieme si abbia il coraggio di creare e comunicare un “manifesto” dell’identità del cuoco e del ristoratore, con regole e comportamenti che qualifichino la vera figura di un professionista, che lungi dalle stelle o dai riflettori degli studi televisivi sia capace di presentarsi anche alle istituzioni come una vera categoria e un’identità forte.