Il Naviglio Pavese e la Darsena, due dei luoghi più “in” di Milano per aperitivi, cene romantiche e anche divertimenti, rischiano di perdere una parte del proprio fascino. Il Consiglio di Stato infatti ha emesso una sentenza che obbliga tre barconi, che ospitano suggestivi bar e ristoranti e sono ormeggiati lungo il Naviglio, a mollare gli ormeggi. Il motivo è da ricondurre ad un contenzioso che prosegue da almeno vent’anni e che ora sembra essere giunto al termine: «Lo spazio acqueo occupato dal barcone - si legge nella sentenza senza appello dei giudici - costituisce un bene demaniale economicamente contendibile, il quale può essere dato in concessione ai privati, a scopi imprenditoriali, solo all’esito di una procedura comparativa a evidenza pubblica».
In parole più semplici, la sentenza obbliga il Comune di Milano a indire un bando di gara per l’assegnazione di quei posti sull’acqua tanto cari ai turisti e ai milanesi stessi. Un mezzo sospiro di sollievo dunque per la magica atmosfera dei Navigli perché non significa che nessuno potrà più ormeggiare sull’acqua del Naviglio ma che chi lo farà dovrà vincere un bando. Quando si parla di bandi il rischio è sempre che le procedure vadano per le lunghe e che la Milano modaiola e del divertimento resti senza una delle sue particolarità per troppo tempo, ma se passare attraverso un bando rende tutto più chiaro e regolare, tanto meglio. E se nei criteri di assegnazione dei posti si assegnasse un “punteggio” alto per l’estetica e l’architettura di quei barconi, ancora meglio soprattutto visto che Milano è pronta a diventare capitale del food come annunciato recentemente dal sindaco Giuseppe Sala e come dimostrato dagli eventi importanti in programma come Milano food city.
A proposito di lungaggini, sulle sponde della Darsena è dal giorno dell’inaugurazione che si sta studiando un regolamento d’uso nuovo. Ma, a conferma dei dubbi appena esposti, non si è arrivati ancora ad un dunque perché la pratica sembra lontana dal necessario passaggio in Consiglio comunale. E quando arriverà sui quei tavoli, immaginiamo già gli scontri. «Ora è tutto nelle mani della politica», dicono sia i ristoratori, che lottano per la salvezza, sia i comitati cittadini, che invece sono tra i principali oppositori alla permanenza dei barconi, come conferma Gabriella Valassina.
Sono tre sentenze fotocopia quelle depositate martedì scorso dalla sesta sezione del Consiglio di Stato. Come già aveva fatto il Tar Lombardia, respingono il ricorso delle tre società che gestiscono attività di ristorazione su chiatte galleggianti. Si tratta del “Cristal Pub” di via Ascanio Sforza 11, dell’“Old Camillo’s Pub” ormeggiato in Ascanio Sforza 19 e del locale di via Scoglio di Quarto. Giovanni Rossi, legale rappresentante della società che ha ingestione Il Barcone, attraccato davanti al ristorante Frank Pummarola, spiega al Corriere: «Se parteciperemo a un bando? Certo. Ma c’è un piccolo problema che sfugge a molti: la chiatta ormeggiata davanti al locale ne è parte integrante. La nostra licenza dal 1985 è unica e riguarda ristorante, dehors e barcone. Siamo in attesa di un incontro in Comune per tentare di trovare un accordo».
Intanto, la pratica è stata trasferita dal settore Commercio interamente al Demanio. Rossi racconta che il suo babbo Armando avviò il locale (pizzeria, pesce e carne) nel 1981. Oggi «è in tutte le guide del mondo e con il bel tempo i turisti cinesi chiedono di essere immortalati con la chiatta sullo sfondo». Il contenzioso è iniziato prima con la Regione che ha gestito il Naviglio fino a metà degli anni Novanta, per passarlo poi in parte al Comune in parte (dopo il ponte di via Pavia) al Consorzio di Bonifica Est Ticino/Villoresi.
«Ci fu data la concessione, perché diversamente non avremmo portato qui una chiatta, e un anno dopo ce la tolsero», racconta Rossi. Allora iniziarono i ricorsi. La faccenda s’è complicata con il passaggio delle competenze al Comune. Che ha tentato con due diverse ordinanze di sloggiare le chiatte. Nel 2009 e nel 2014. In quell’anno, tra l’altro, un’interrogazione del grillino Mattia Calise, portò a galla debiti pregressi delle tre società nei confronti dell’amministrazione, 140mila euro in tutto. «Debiti che stiamo sanando per quanto ci riguarda - dice Rossi - con cartelle esattoriali che abbiamo regolarmente pagato». I gestori hanno respinto più d’un attacco. Ordinarono la cessazione dell’attività le giunte Formentini, la Conferenza di Servizi nel 2009 e infine nel 2014, la giunta di Giuliano Pisapia. E intanto chi ne paga le conseguenze è sempre la città e i cittadini o turisti che per battibecchi un po’ politici un po’ campanilistici devono rinunciare a qualche “sfizio”.