Ci sono battaglie culturali che in Italia si combattono con la passione di una crociata: l’ananas sulla pizza, la panna nella carbonara. Su questi punti, l’italiano medio non transige. Ma poi, puntuale, si presenta al bancone del bar, ordina “un caffè normale” e affonda due cucchiaini di zucchero in trenta millilitri di liquido nero, mescolando con vigore quasi liberatorio. Ecco: lo stesso Paese che si scandalizza davanti a un topping tropicale è quello che ogni giorno affoga il proprio espresso in una dolcezza stucchevole. L’ironia è evidente: se il caffè italiano fosse davvero buono come diciamo, non avrebbe bisogno di zucchero. Ma siccome, nove volte su 10, quello che esce dalle nostre macchine è amaro, bruciato o sovraestratto, l’unico modo per renderlo bevibile è addolcirlo. Il cucchiaino di zucchero è la nostra scappatoia culturale, la toppa dolce su un gusto difettoso. È la rimozione collettiva del problema.
Una questione di abitudine (e di sopravvivenza)
Mettere lo zucchero nel caffè, in Italia, è un gesto quasi automatico. È la prima cosa che impariamo quando da adolescenti iniziamo a bere espresso: «È amaro, ci devi mettere lo zucchero». È la frase che si sente nei bar, nelle cucine, nei luoghi di lavoro. L’amaro è vissuto come una minaccia, qualcosa da correggere, non da comprendere. Il risultato è che intere generazioni hanno imparato a non assaggiare mai davvero il caffè, ma solo la versione edulcorata della propria abitudine. Lo zucchero, in fondo, è una forma di autodifesa. Serve a mascherare difetti che ormai consideriamo normali: tostature eccessive, amarezze da bruciato, note di legno e di cenere. Se togliessimo lo zucchero a gran parte degli espressi serviti nel Paese, scopriremmo un sapore spesso sgradevole, acido, aggressivo.

Mettere lo zucchero nel caffè, in Italia, è un gesto quasi automatico
Lo zucchero diventa così un anestetico: calma il palato, addolcisce la realtà, ci evita di fare domande. Eppure, l’espresso - quello vero, quello buono - non ha bisogno di zucchero. Un caffè ben estratto, ottenuto da materia prima di qualità e tostato con rispetto, ha un equilibrio naturale di dolcezza, acidità e corpo. È armonioso, complesso, sorprendente. Dentro una buona tazzina si possono riconoscere note di frutta secca, di cioccolato, di fiori, di agrumi. Tutte cose che lo zucchero cancella, copre, neutralizza. È come aggiungere acqua a un Barolo o ketchup a una bistecca di fassona: si può fare, certo, ma il problema non è nel prodotto. È nel palato.
Lo zucchero come anestesia culturale
La radice del problema è, ancora una volta, culturale. L’Italia non ha mai educato il gusto del caffè. Ha educato il rito, non il palato. La pausa caffè è un simbolo sociale, non un’esperienza sensoriale. Nessuno ci insegna a riconoscere un buon espresso, a capirne i profumi o la struttura. Ci insegnano a berlo in fretta, in piedi, con due bustine di zucchero e un bicchierino d’acqua a rincorrere. Lo zucchero è diventato il collante di questa superficialità. È l’additivo che tiene in piedi il mito del “vero espresso italiano” e lo rende sopportabile anche quando è cattivo. È la foglia di fico del nostro orgoglio nazionale: ci permette di continuare a dire che “noi lo facciamo meglio di tutti”, mentre mascheriamo con dolcezza un gusto impoverito.
Il paradosso è che l’italiano medio, quello che si sente custode della tradizione, si scandalizza di fronte a chi mette il latte di soia nel cappuccino o una fetta di ananas sulla pizza. Ma poi, con la stessa disinvoltura, mette due cucchiaini di zucchero nel caffè. “Sacrilegio!” urla al turista che osa fare diversamente, mentre lui stesso commette il più grande tradimento del gusto. Forse la differenza è che la pizza con l’ananas, almeno, è un atto consapevole. Il caffè con lo zucchero, invece, è pura inconsapevolezza. Se il caffè fosse davvero buono, non servirebbe correggerlo. Se l’espresso fosse davvero equilibrato, la dolcezza naturale del chicco - perché il caffè è dolce, se trattato bene - basterebbe da sola. Invece, abbiamo costruito una tradizione sulla necessità di nascondere i difetti. Lo zucchero non è solo un ingrediente: è un sintomo. Il sintomo di un Paese che ha trasformato un capolavoro agricolo e artigianale in una bevanda standardizzata, mediocre, addolcita quanto basta per non accorgersi della sua tristezza.

Se il caffè fosse davvero buono, non servirebbe correggerlo
Naturalmente, esiste anche un aspetto fisiologico. Il palato umano, per natura, tende a preferire il dolce. È un istinto primordiale, legato alla sopravvivenza. Ma è anche una questione di allenamento: si può educare il gusto, imparare ad apprezzare la complessità dell’amaro, le sue sfumature. In Italia, invece, abbiamo disimparato a sentire. Lo zucchero ci ha resi pigri. Ci ha tolto la curiosità. Ogni bustina è una rinuncia: alla scoperta, alla differenza, alla verità del prodotto. Ci sono baristi che provano a invertire la rotta, che invitano i clienti ad assaggiare il caffè prima di zuccherarlo. Spesso la risposta è la stessa: «No, a me piace dolce». Ma la verità è che non lo si è mai provato davvero, il caffè. Si è provata solo la versione anestetizzata del suo sapore. Un buon espresso, bevuto senza zucchero, racconta tutto: la tostatura, la qualità del chicco, la pulizia dell’estrazione. È trasparente, nudo, sincero. Non mente. Ed è forse proprio per questo che fa paura.
Il dolce inganno che nasconde la verità
Lo zucchero nel caffè non è solo un’abitudine poco sensata: è anche una scelta poco salutare. In un Paese che consuma milioni di tazzine al giorno, due bustine per volta fanno una montagna di zucchero invisibile. Si parla tanto di diete, di benessere, di consapevolezza alimentare - ma poi nessuno considera che una delle abitudini più radicate e quotidiane è anche una delle più inutili. L’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda di limitare gli zuccheri aggiunti a meno del 10% dell’apporto calorico giornaliero.
Eppure, per molti italiani, gran parte di quella quota arriva proprio da lì: dal piccolo gesto automatico del mattino, ripetuto più volte al giorno. Ma il vero danno è culturale. Finché continueremo a zuccherare il caffè, continueremo a non affrontare il problema: la cattiva qualità del caffè stesso. Non c’è zucchero che possa correggere una cattiva tostatura, né dolcificante che renda onesto un espresso bruciato. La dolcezza, in un caffè buono, c’è già. Basta saperla trovare.
Lo zucchero nell’espresso, un paradosso tutto italiano
Siamo un Paese che difende le proprie tradizioni con una gelosia feroce. Guai a toccare la pizza, la pasta o il vino. Ma il caffè - il simbolo più quotidiano e diffuso del nostro gusto - lo trattiamo con una leggerezza disarmante. Ci indigniamo per l’ananas, ma accettiamo senza battere ciglio di bere ogni giorno un espresso corretto… con zucchero. La verità, forse, è che l’ananas non è il problema. Il problema è che, se il caffè fosse buono, nessuno sentirebbe il bisogno di dolcificarlo.

Difendiamo le tradizioni, ma affoghiamo il caffè nello zucchero
Ma siccome, nella maggior parte dei casi, non lo è, lo zucchero serve a renderlo accettabile. È la prova, dolce e impietosa, che la nostra superiorità gastronomica, almeno in questo campo, è tutta da rivedere. Forse il giorno in cui l’italiano smetterà di mettere lo zucchero nell’espresso sarà anche il giorno in cui inizierà davvero a capirlo. E chissà, magari allora potremo permetterci di scherzare con chi mette l’ananas sulla pizza senza essere noi, questa volta, quelli nel torto.
L’inchiesta di Italia a Tavola sul caffè